Nicola Barbato (Aversa, 1996) è laureato in filologia moderna all’Università di Napoli Federico II. Poeta, attore e drammaturgo, fa parte della redazione di Inverso – Giornale di poesia e del collettivo Diverbio. È stato finalista nazionale LIPS per due anni consecutivi (2023-2024). Alcuni suoi versi sono apparsi su riviste italiane e internazionali. Ha pubblicato nel 2024 I cani nel cervello con Eretica edizioni.
Ciao Nicola, benvenuto. Dunque, la tua presenza all’interno del circuito slam è ormai consolidata: quali sono state però le tappe precedenti allo slam che ti hanno portato a sperimentare con la scrittura e col performare la parola? Dopo averlo incontrato quali sono state invece le motivazioni che hai trovato per approfondirlo e per cofondare Diverbio, cominciando ad organizzare slam a tua volta?
Ciao Isidoro, che bello questo momento di condivisione. Alle amiche e agli amici che leggono, grazie per la presenza. Ci godiamo il flusso dei pensieri, senza stare troppo a badare: concediamoci la bellezza del respiro.
Ho imparato prima a dirla la parola e poi a scriverla e questo mi fa raccontare della prima tappa del teatro: se oggi c’è addirittura un libro con il mio nome sopra è sicuramente responsabilità di quel primo spettacolo all’asilo di Carinaro, dove una decina tra bambine e bambini impersonificano delle pietanze pronte ad essere divorate dagli astanti parenti. Comunque la cosa più vicina al cannibalismo che io abbia mai vissuto. Io facevo “IL POLLO” e ne ricordo ancora una battuta: “io sono il pollo. Sono assai bello, ma finisco sul fornello”. Tra le attrici, un’altra pietanza mi ha fatto scrivere tanti testi de I cani nel cervello: la vita è (anche) una barzelletta. Data la sicura bravura dimostrata nelle vesti del povero animale, no scherzo dai, ho cominciato a fare teatro da bambino e fino al liceo inoltrato era questo il mio mondo della parola, una parola già detta, per conformazione. Il mio primo libro l’ho letto a diciassette anni, se c’erano delle parole stese in orizzontale le guardavo immediatamente in suono. La scrittura è arrivata tardi ma viene da qui: viene da quella spinta interna, chiamalo richiamo, chiamiamolo come ci pare così che ci godiamo la nostra fallibilità per un secondo specie quando scendiamo dentro di noi, che ho sentito di fronte al testo di Raffaele Viviani, ’O vico, che so ancora a memoria e integralmente. Io facevo IL CAMERIERE, che apriva lo spettacolo dicendo: “disse bene Giulio Cesare quando scoprì l’America! Chi tene ’e renare more felice, e chi nun tene niente…” e MASTU RAFEL, il ciabattino in miseria, risponde interrompendolo: “Nun have paura ’e essere arrubbato!”. E’ questa roba qui, questa scarica iniziale, che poi ha trovato concretezza al liceo. Un testo è anche e immediatamente la sua destinazione. Il mio maestro di teatro in quegli anni ci parlò della Maddalena, il primo ospedale psichiatrico d’Italia che abbiamo l’onore di avere ad Aversa. Ci avvicinammo alle storie delle persone che avevano abitato quegli spazi: da lì l’intento di dare voce e luce all’escluso, al marginale, essere umano o territorio – dimensione di lotta. Scrissi il primo monologo teatrale, poi ne scrissi un altro. Sto cercando di dire e girovagando troppo per scelta che io la parola l’ho scritta già detta sempre perché non l’ho mai conosciuta diversamente. Con l’adolescenza diventa tutto velocissimo: conosco le prime persone che scrivevano poesia ad Aversa, mi impiccio nell’organizzazione degli eventi culturali sul territorio, tutto molto bello, l’università ha fatto altro è un discorso a parte, c’è Napoli, Napoli fa perdere il filo, ma succede poi che il cameriere comincio a farlo per davvero, in un locale che per due anni è stato la dimensione spaziale dove trascorrevo dodici ore al giorno, tutti facevano tutto, e io mi dedicavo anche alla “direzione artistica”: per questo motivo a Napoli vedemmo un evento di slam e decidemmo che dovevamo farlo anche noi. Lo facemmo e io partecipai. Mi divertii troppo per non continuare. E mi divertii anche perché compresi che era importante avere la possibilità di dire qualcosa a qualcuna a qualcuno e poter mettere in luce e in voce margini territori e dimensioni di lotta. Diverbio viene da questo divertimento e da questa consapevolezza condivisa di un gruppo di persone che vivono una determinata terra. Creare queste possibilità è molto potente, specie dove strutturalmente mancano per incapacità politica. Sono sempre le persone a dare la motivazione.
È del 2024 la tua prima raccolta, I cani nel cervello, edita da Eretica. I tuoi testi hanno una voce pulsante, la loro presenza abita sì la pagina con forza, ma quasi scalciano per superarla, per esser detti. In che modo approcci la scrittura di un tuo testo, e quanto dell’eventuale oralità successiva influenza il tuo scrivere?
Mi prende una parola, un verso, un ritmo, un’immagine che può venire da tutti i sensi e poi continuo fin quando la magia non finisce: una parola già suonata che va in accordo ora in un modo-ora in un altro, e si crea anche un’atmosfera dove si abita. Come le parole si sentano dette non influenza il mio scrivere: l’oralità la sento precedente alla scrittura e credo che abbia a che fare fortemente con a chi si dice. Riprendendo dalla tua bella domanda questa cosa che scalcia lo fa perché vuole uscire fuori e ritornare dentro e riuscire fuori, man mano arricchendosi. Mi viene da dirti questo.
Il rapporto con la parola poetica non è solo limitato alla tua produzione: tra le altre cose, sei tra i redattori di Inverso – Giornale di poesia. In che modo la cura verso testi altrui che il ruolo di redattore impone influenza la cura verso il tuo stesso scrivere?
Che bella la parola “cura”, l’ho convocata poco tempo fa scrivendo una nota per quel libro stupendo di Gloria Riggio, Ave Maria piena di rabbia, che secondo me vi dovete accattare. Il mio scrivere viene molto anche dagli studi universitari in filologia, che è una dimensione privilegiata per capire come ci si prende cura di un testo e vuoi anche per pigrizia, ho lo stesso approccio di attenzione che si tratti di un mio scritto o di un’altra o un altro poeta. Mi hai fatto capire un esempio: uno degli ultimi articoli che ho curato per Inverso è dedicato ad un testo stupendo di Dario Ferrara, Tirituppo. Si tratta di un’opera scritta in un dialetto sostanzialmente franco, che doveva essere reso con un’ortografia che portasse in seno le varie sfumature sonore di una lingua sostanzialmente inventata fino a quella prova contraria. Ho provato la stessa sensazione quando ho curato il testo di Terra, che è in Lipsink vol.2. E capisco anche un’altra cosa e concludo: se apro ora Lipsink mi renderò sicuramente conto di non essere più d’accordo su una forma. È un ottimo promemoria per ricordarsi che c’è tanto da studiare e da capire ancora.
L’urgenza della tua scrittura – “letteratura disperata”, a prendere in prestito la definizione che ne ha dato Rebecca Garbin – si concentra spesso in uno sguardo di narrazione e rivendicazione del margine, di represent nell’accezione hip-hop del termine. Questo tuo abbaiare è alla luna, o ha anche altre modulazioni e altri destinatari?
Consiglio assai di leggere quella nota bellissima di Rebecca Garbin su Vallecchi e comunque consiglio assai di leggere tutto quello che scrive Rebecca Garbin.
Ho avuto il mio periodo hip hop, siamo tra amici. In un mio testo, Ce ne iamme, ho scritto: «simme ’a gente r’ ’e Panchine e ce ne iamme». Quelle panchine di cemento in quello che era un parcheggio di cemento alla destra del comune di Aversa [oggi c’è una piazza finta verde di una tristezza] che durante la mia adolescenza sapevano di Bolo by Night di Inoki. Un gruppo di uaglioni e uaglione che ascoltavano rap in ogni ora e facevano freestyle ad ogni ora, e la gente a volte faceva break e qualcuno beatbox e mi ricordo che all’improvviso qualcuno si metteva a sputare fuoco e chi portava le birre e chi portava da fumare e si faceva freestyle fino a quando non si spegneva quel secondo esatto che qualcuno trovava un beat nuovo che ci gasava e tutto daccapo per anni. Ne ho un ricordo favoloso. Nell’ambiente hip hop oggi ci sono i muretti. Le panchine erano il muretto di Aversa. Averle convocate in Ce ne iamme che, appunto, cerca di restituire la tragedia dell’emigrazione forzata imposta alle giovani e ai giovani specie del sud Italia è dato dal fatto che le Panchine si sono lentamente disgregate perché noi che le vivevamo abbiamo cominciato a fare le palline pazze per lavoro chissà dove. Quell’energia la sento però ancora sotterranea nelle strade e riesce, anche se non ce lo diciamo, a legare quelle persone in un ricordo che era e resta anche una forma di vita.
Non ho ancora risposto alla domanda in tutto ciò: mi hai fatto ricordare dei versi scritti su un Flixbus tempo fa ma che ho fatto rientrare per dimenticanza nelle cosiddette “scartate”, versi che mi pare potrebbero rispondere o forse no e in questo caso ci godiamo il tutto aperto:
Dalle parole, le lettere, i suoni,
non mi aspetto rivelazioni o chissà quali
trascendenze. Ho perso interesse
verso l’altro mondo
che non è nient’altro che questo qua
ma meno presente.
Ho smesso di dare il naso alla luna
da quando qualcuna mi abitò nel ventre:
ora ululo alla terra
e capisco chi banchetta con i vermi.
Gli ultimi due versi sono brutti.
Sempre parlando di modulazioni e destinatari, parte della tua produzione è dialettale. Quali sono le variabili che ti portano a scegliere se dar vita a un testo in italiano, in dialetto o integrando le due cose?
Non scelgo consapevolmente di usare l’una o l’altra lingua, è ciò di cui scrivo che mi fa pensare ai versi o in italiano o in dialetto. Si tratta più di trascrizione che di scrittura e come spesso succede Dante l’ha detto già e meglio: nel ventiquattresimo del purgatorio il nostro incontra Bonagiunta Orbicciani, poeta della generazione precedente, e dato che Dante è tutto sommato un megalomane si fa riconoscere come colui che scrivendo “Donne ch’avete intelletto d’Amore” ha inaugurato le rime nove (sintagma abbastanza problematico messo in bocca a Bonagiunta ma non stiamo ad una lectura dantis e mi taccio). Non pago di essersi appena fatto i complimenti da solo, Dante risponde al dannato con quella che viene sentita come una dichiarazione di poetica da parte di un Dante iniziatore del nuovo modo di poetare del dolce stil novo:
E io a lui: «I’ mi son un che, quando
Amor mi spira, noto, e a quel modo
ch’e’ ditta dentro vo significando».
ditta dentro e in voce fuori
Quando Dante nomina Amor sta parlando di un qualcosa di estremamente potente, una dimensione tangente con quel scalciare interno di cui si scriveva sopra e con lo stringere gli occhi nella tecnologia della visione–tenerezza grande di cui ha scritto Rebecca Garbin in quella bella nota. Siamo lontani dal chiudere i discorsi ma che bello essere così vicini ad aprirli.
Quest’anno vede, dopo una lunga pausa, anche il tuo ritorno a teatro come attore per La bestemmia degli angeli caduti di Floriana Verde. Com’è stato questo tuo ritorno? Percepisci un contributo della pratica teatrale al tuo modo di interpretare i tuoi testi, così fisico e in dialogo con un’alterità?
Rischio patetismo: provo un estremo senso di gratitudine per tutta la squadra della Lombardi Creative studios. Penso di averlo raccontato nel modo che segue a tante persone: ritornare a lavorare per il teatro è stato come aver ritrovato un giocattolo che ti faceva impazzire da bambino e scoprire che giocarci da grande è ancora più divertente perché hai la maturità per comprendere come si gioca seriamente. Poi poter collaborare con persone straordinarie che si danno a te radicalmente è pure questione di fortuna. Una cosa che fa ridere: una settimana prima di firmare il contratto per lo spettacolo avevo tolto dalla “biografia”, che sai a volte si manda anche per partecipare ad un poetry slam, la dicitura “attore”, perché dai tutto sommato erano anni che non avevo un contatto importante col mondo teatrale. Io attore non mi ci sentivo e in realtà non mi ci sento. Lo sono per davvero Bruno Cassandra, Rosaria Truppo, Josepha Pangia, il cast de La bestemmia degli angeli caduti, che hanno dedicato la loro vita a questa tipologia di formazione professionale. La gratitudine scatta qui: loro mi hanno dato tutto, io ho assorbito come, ancora, assorbono i bambini, ma ora bisogna studiare. A Floriana Verde devo la possibilità di poter sentire sul corpo un testo così potente e soprattutto la riscoperta in me di avere tanta voglia di imparare.
Il teatro mi ha costruito corpo e voce, se ne viene con me sempre e dovunque. D’altronde ho cominciato questo flusso di coscienza con il POLLO quindi figuriamoci.
Isidoro io mi fermerei altrimenti non la finiamo più e non sono bravo con i saluti ma ci si vede in giro su.