Interviste

Intervista a Gloria Riggio

Scatto di Michela Margiotta

Gloria Riggio (Agrigento, classe 2000), poeta e performer, è campionessa italiana di poetry slam 2023. Dottoressa in Studi storici e filologico-letterari all’Università di Trento, ha pubblicato le raccolte di versi Il mirto e la rosa (Edizioni La Gru, 2017), La stagione del dubbio (Edizioni La Gru, 2019) e la recente Ave maria piena di rabbia (BeccoGiallo, 2025) ed è stata tradotta in spagnolo, tedesco, inglese, francese e greco. Dal novembre del 2022 propone sulle scene lo spettacolo di poesia performativa Periodi ipotetici sviluppatosi in varie forme, in dialogo con musicisti ed altri artisti.

Benvenuta Gloria, e grazie. Dunque, il tuo percorso nella poesia comincia molto prima del tuo avvicinamento allo slam: ne sono testimoni, tra le altre cose, due raccolte uscite per Edizioni La Gru o la vittoria di premi come il Navarro. Ti andrebbe di raccontare i tuoi primi anni della tua ricerca?

Ciao a te, e grazie per questo tempo. È vero che la poesia è stata da presto per me un gesto familiare e compagno: a tratti ferita, a tratti orlo che la cuce. I primi anni sono stati in rapporto interlocutorio con la carta, si trattava di una poesia intessuta al silenzio, non distante da quella che frequento oggi: la voce non ha dissolto quel rapporto, lo ha reso se possibile più limpido. La differenza, se c’è, sta nel fatto che scrivere in origine era forse anche un fare a meno di dire: se dire sdruciva il tessuto dell’incanto, del timore o del dolore, scrivere vi passava la mano su per sentirne il filato. Più che di una poesia di ricerca parlerei infatti di una poesia di scoperta. In quegli anni, come ancora adesso, la poesia era una zona di buio o di luce in cui mi inoltravo sapendo che per una o l’altra ragione qualcosa sfuggiva alla mia vista: era ed è il gesto del sentire – e dello sgomitolare, in questa officina d’artigiani – una divaricazione atta ad accogliere da cui, al più, il vedere consegue.

Sono già un paio di anni che porti in giro il tuo spettacolo di poesia in musica Periodi ipotetici assieme a Fabio Schember. Com’è nata l’idea del progetto, e in che modo fate dialogare la performance dei tuoi testi con l’elemento della musica?

È nata in una notte, in Campania, quando la musica o la poesia fanno da appunti per una salvezza, l’ultima cosa che resta da fare. Fabio l’anno scorso, intorno a marzo, prima della prima dello spettacolo, usava introdursi alla cosa e spiegarla dicendo che la vita è l’arte dell’incontro, e credo basti sia per dire noi che per dire il procedere del come i nostri linguaggi si intreccino. Le mie poesie possiedono una loro precisa musica intessuta alle parole: intercettarla e giocarci, individuarne le onde dentro l’aria e giocare a biglie con le note è stato miracoloso e naturale. L’idea è di un colloquio fra musica, suono e poesia, tra segno e senso. L’immagine che la spiega bene è quella della traccia che resta a campeggiare dentro l’aria quando uno dice a un altro di aprire le braccia e lasciarsi andare di schiena, e l’altro si fida e si lascia cadere. Il modo in cui lavoriamo è, più che la presa, la sospensione che sosta dentro la caduta. Molto del processo che conduciamo è di improvvisazione (quindi di studio e lavoro e ascolto); anche qui quindi si tratta di ricerca della scoperta. Lo spettacolo non sta nel sorriso che segue la presa, forse è qualcosa di più simile alla vertigine alla nuca che procede – ma è già nel lancio – verso una fiducia.

La tua tesi si è sviluppata attorno al tema della poesia postrema femminile in Italia: cosa ti ha risuonato maggiormente nella sua stesura e quali osservi siano i cambiamenti o le similitudini tra la situazione di allora e quella di oggi, dalla tua prospettiva di poeta?

La tesi ha a che fare con la perdita e il recupero della produzione poetica femminile dal canone letterario italiano dal secondo Novecento ad oggi, con un’attenzione al medium dell’oralità. Il lavoro segue il tentativo di capire le dinamiche che hanno prodotto questo fenomeno di esclusione e addirittura di oblio di certa letteratura e si accompagna all’intenzione di produrne la riemersione; infine si interroga sulle tracce nel presente di questo portato storico. Se la poesia è il dito con cui teniamo il segno sulla pagina della storia per non perdere il filo, quale storia abbiamo mancato di conoscere non conoscendo le autrici che ne hanno scritto? Quale, dando per buono l’equivoco prodotto dalla sovrapposizione tra poesia tout court e produzione maschile?

Usavo chiamare questa sottrazione “violenza bianca” prima di approfondire la questione ancora e ancora. Sulla continuità di questa dinamica nell’oggi è sufficiente la narrazione dei giornali in relazione alla mia vittoria, la prima femminile nella storia nazionale, del 2023. L’attesa che precedeva l’evento anche in seno alla comunità poetica non ha a che fare, ovviamente – ma considerato tutto può essere importante specificarlo – con il fatto che sia sufficiente una donna purché sia, ma con la scollatura che deriva dal fatto che una manifestazione decennale come il campionato LIPS non avesse ancora visto un’autrice vincere a fronte della presenza di autrici e performer formidabili nel panorama italiano degli ultimi venticinque anni. La narrazione mediale si è invece spesso e volentieri allineata alla retorica di una donna purché sia. Questa biforcazione spiega bene la differenza tra il gesto del fare poesia e le dinamiche contestuali alle società dentro cui quel dato gesto viene attuato. I podi e i canoni sono strumenti che cigolano e se, come credo, è vero che dicono di più sui presupposti che li hanno prodotti piuttosto che sull’attendibilità del risultato che producono, bisogna contestualizzarli e consegnarli ai perché delle loro ragioni. Questo non vuol dire disconoscerli o delegittimarne il valore, piuttosto riportarli alla loro natura di prodotto culturale di una data società, e dedurne conseguenze che hanno a che fare con questo e non con la poesia, che è altro. Insana rispondeva al questionario relativo alla ricerca sulle esclusioni di genere in poesia postole da Ambra Zorat scrivendo «lo lasci dire alle poverette, per le quali non esiste forma, non esiste tradizione, esiste solo il bisogno di dire».

Rimane comunque un lavoro a mio avviso fondamentale tentare di assottigliare la distanza tra la forma e la sostanza, tenendo a mente l’ingiustizia subita nei secoli e ancora oggi e comprendere ciò che è stato per potere scegliere cosa è oggi e sarebbe bello non fosse più, cosa è oggi e cosa sarebbe bello fosse domani. A fronte di questo la poesia nella sua sostanza più profonda sfugge a queste dinamiche, le tradisce, ne sfronda le sovrastrutture. E per quanto talvolta le nomini – spesso con maggiore efficacia di lunghi saggi – frequenta la questione come la fede le chiese.

Tra le altre cose sei anche redattrice per Inverso – Giornale di poesia, per il quale hai convolto anche alcune penne dall’universo slam come quelle di Chiara Araldi e Cristina Carlà. Come approcci il lavoro di redazione, in quali direzioni vai scegliendo gli argomenti dei tuoi contributi?

Le rubriche che conduco per Inverso hanno avuto a che fare con l’argomento di cui ho appena detto per la sezione Riemersioni e con il tentativo di tracciare la traiettoria contemporanea dell’oralità in poesia per Ad alta voce entro cui si trovano anche gli articoli che hai nominato. In relazione a questo, considerato che la poesia è anche un gesto e Inverso (la sua realtà, il suo cerchio-circuito e la sua storia) lo sa bene, da gennaio curo una rassegna per un progetto, l’I.P.C. – Istituto di poesia contemporanea, ideato dalla redazione e dalla Fondazione Alfonso Gatto di Salerno, in collaborazione con Scabec e il Ministero della Cultura. La rassegna ha per nome L’Emergibile e ha ospitato ogni mese da gennaio sino a fine maggio autrici contemporanee.

Si tratta non di ciò di emerso, ma di ciò di emergibile.

Si tratta di una rassegna per la divulgazione della poesia contemporanea. Si tratta di nominare la tematica di genere in rapporto alla poesia, connotandola storiograficamente nei suoi esiti problematici e fattuali. Si tratta di farlo in prospettiva critica, invitando alla parola autrici, poete e studiose contemporanee. Si tratta dopodiché di dimenticarsene, e di mettersi in loro ascolto, di dialogare con loro, di ascoltare le loro poesie, gli snodi delle loro poetiche, le traiettorie della loro parola.

Si tratta di scavare all’interno della categoria del silenzio e dentro quella della voce: sarà “il canone del silenzio” con Elisa Donzelli in rapporto al metodo e al canone poetico italiano, sarà una poesia come per un “fare l’orlo al silenzio” con Elisa Biagini, saranno le Trasparenze della voce e le congiunture con la musica della poesia di Borio.

Sarà un discorso sull’inestimabile e liberissima voce di due autrici del secondo Novecento quali Jolanda Insana e Giulia Niccolai, insieme a Giorgia Esposito; sarà l’individuazione di una identica frequenza di fondo nella voce di ciascuno di noi – ed è quella dell’infanzia – con Vivian Lamarque.

La rassegna, al di là della questione di genere – essa può costituire anche solo l’inquadramento di un problema strutturale in Italia – si incentrerà sul dialogo intorno alla produzione, alla poesia, alla poetica, alla voce di ciascuna autrice.

L’ultimo incontro si è tenuto il 27 maggio con Elisa Biagini ed è stato bello bellissimo nel modo più felice che ho di dire bello bellissimo. Per rispondere alla domanda sui criteri di conduzione della ricerca parlerei del precipitato materico e cioè corporeo e cioè presente entro il circostante della redazione, per questo negli ultimi tempi scriviamo meno sulla scrivania e più seduti in attesa alla stazione. A febbraio Nicola scriveva:

mondoposacenere mondo noi mondo insieme

mondo pasta mondo salsa. facciamo mondo

spazio-cuore corpo campo non c’è scampo

alla luce insieme, alla luce non c’è scampo.

È tutto.

Al momento stai seguendo un master in Drammaturgia alla romana Silvio d’Amico: in che modalità stai esplorando le relazioni tra parola scritta e performance della stessa, in che misura stai facendo entrare in dialogo la scrittura poetica con quella di scena?

Studiando, sperimentando, studiando, scrivendo, studiando, ascoltando, studiando, provando, studiando, curiosando, studiando, dannando, studiando, benedicendo, studiando, leggendo, studiando, annoiando, studiando, errando, studiando, indagando, studiando, sfrondando, studiando, difendendo, studiando, negando, studiando, studiando.

È di recente uscita Ave maria piena di rabbia, la tua ultima fatica letteraria dopo La stagione del dubbio, uscita ben sei anni fa. In questa parentesi temporale sono accadute molte cose, alcune di queste elencate nelle precedenti domande. In che modo queste esperienze hanno influito sul tuo riapprocciare alla forma-libro – e più ampiamente, cosa ti ha portato a questo ritorno?

Ave maria piena di rabbia raccoglie esattamente ciò che è accaduto nel corso di questi ultimi cinque anni, ciò che resta al di qua del setaccio del tempo, e cioè l’approdo alla voce. Le esperienze di cui parli hanno influito molto sull’indagine relativa alla forma-libro perché la poesia orale non trova sufficiente alcun canale che non sia l’estemporaneità della poesia detta e ascoltata in condivisione spazio-tempo. Il fatto che non si accontenti se non della presenza, e talvolta neppure di quella, comunque, credo sia un bene.

La mia cassetta degli strumenti della poesia scritta e quella degli strumenti della poesia orale, le cassette della carta e della voce mi sono state utili in ugual misura. Esiste all’interno del libro una grammatica precisa, una grammatica di spazi bianchi eloquenti al pari delle parole e di interpunzioni con cornici di senso solide al di là dei testi che le abitano, un’equazione tipografica monca però della voce, della prosodia, del ritmo, del respiro. Esiste una grammatica precisa anche all’interno dello spettacolo, monca in quel caso del testo, della rilettura, della parola che campeggia salda alla pagina. Esiste una grammatica anche del disco a cui stiamo lavorando, una grammatica di ascolto e onde e aria, monca del corpo, dei gesti, della carta.

Nessuna di queste formule – tutte impiegate in modi e tempi diversi per il medesimo corpus – raccoglie l’intera intenzione del dire e del fare poetico in questo caso. Credo possa essere però un bene, dicevo, qualcosa come il procedere di una tensione, qualcosa che non impigrisce, che si interroga fino al momento in cui si ritorna ad essere insieme per continuare a domandarsi se la risposta non viva dentro l’atto del porre la domanda.