Interviste

Intervista a Dimitri Ruggeri

Dimitri Ruggeri è un poeta transmediale, performer vocale ed operatore culturale, membro fondatore di Poetry Slam Abruzzo. È ideatore del blog Slam[Contem]Poetry, della Biennale Marsica e del portale di arte e cultura POPact [Eventi ad Arte]. È autore di svariate raccolte, tra cui Parole di grano (2007), Il Marinaio di Saigon (2013), Krokodil (2018) e Radon (2019), e di altre opere tra la carta stampata ed altri supporti, soprattutto quello video. In perenne ricerca, lo abbiamo contattato per riattraversare assieme un po’ del suo percorso.

Benvenuto Dimitri, grazie per la disponibilità. Il tuo nome è legato a doppio filo con una realtà di cui in parte questa rubrica è erede, ovvero il blog Slam[Contem]Poetry, i cannibali della parola, che a partire dal 2015 ha raccolto interviste e testimonianze dal mondo della poesia performativa, con una particolare attenzione al mondo slam. Com’è nato il progetto, e come l’hai sviluppato nel tempo?

Beh, intanto sentirti affermare una cosa del genere per un progetto che a maggio ‘25 festeggia “boomericamente” i dieci anni mi fa tantissimo piacere. Penso però, allo stesso modo, che il tempo non sia solo una percezione stanca e passiva della vita ma un elemento ferino che porta a livellare, perfezionare e a far evolvere sempre in meglio le “cose UFOICHE”, verso il futuro. Quindi esordisco all’incontrario: ti faccio un grosso “in culo alla balena” (in Abruzzo è vietato pronunciare la parola “lupo” senza riti di iniziazione montana, quindi non ti dico “in bocca al lupo”) per continuare con caparbietà e fermezza quest’attività fondamentale, spesso sottovalutata e bistrattata prima e esaltata (poi) quando si lega al narcisismo di chi ne beneficia (l’intervistato?). Io dico che comunque è un bene comune, da preservare e difendere. Poi il tempo, se Cronos vuole, diventerà la sentinella inevitabile e il custode della documentazione accumulata: sarà la prassi di una “cosa” che diventa storia di quella “cosa”, sostiene Pereira (Inzomm’e le “cose” penzate, masticat’e e spudate dalla gend’a divendano prezziose, vajo). Inoltre, avrai anche notato che quando si affrontano progetti così impegnativi spesso ti volti e non c’è nessuno che ti segue o ti sostiene; quindi, mettiti sulla mano mozzata dalla penna l’uncino come il Capitan Mancino e va avanti come un Diavolo!

Però per risponderti sostanzialmente, dopo una premessuncola del genere, ti confesso che l’idea del vecchietto poetry blog Slam[Contem]Poetry rispecchiava il mio essere e il mio pensiero di come vedevo il mondo che per me era soprattutto pionierismo dell’ignoto. Fino al 2015, non ancora quarantenne, avevo giocato moltissimo con la poesia in modo spontaneo, inconsapevole e solitario ma non onanistico. Venivo, già dal 2006, dalla poesia tradizionale che intendeva brutalmente la pubblicazione cartacea come unica forma di fruizione, cosa che non feci mai e che rifiutai sin dall’inizio. Iniziai a rappresentare e performare i miei testi, decontestualizzando borghi e spazi in disuso con linguaggi artistici ibridi come la poesia visiva, la video poesia, la foto poesia, il teatro poesia, la land poetry e la performance  fino ad arrivare al poetry slam che importai in Abruzzo nel 2010, passione riaccesasi dal 2014, importandola anche in Molise nel 2016.

Qualcuno senza che lo sapessi localmente mi chiamava addirittura “SlamPapy”, ma ovviamente la realizzazione di molti sogni fu resa possibile non solo grazie alla mia ingenua intraprendenza e curiosità ma anche alla frequentazione di persone incontrate in giro per il mondo. Tuttavia ‘ste cose strane con la poesia (come le definiva chi mi seguiva) hanno preso piede concretamente nella Marsica, mio luogo d’origine dopo aver vissuto a lungo a Venezia e a Roma soprattutto.

(Mo’ ti racconto cosucce antiche. Resisti, mio lettore!)

Con alcuni amici e artisti che provenivano da pittura, scultura, musica, letteratura, cinema e teatro creammo nel 2008 un Collettivo chiamato POPact che si ispirava all’esperienza dei pittori del G.A.M. (Gruppo Artistico Marsicano) propulsore attivo del noto Premio Avezzano1, che anticipava sin dagli anni ’50 le tendenze artistiche italiane che si manifestavano fino alla Biennale di Venezia. Io ero l’unico “verseggiatore”, come mi definisco ancora oggi. Il nostro gruppo non aveva certo questa prerogativa ma intendeva semplicemente creare “casino”, entropia sociale con l’arte in un contesto pressoché statico e passivo. Di fatto però la Marsica dei cafoni di Fontamara si trova sull’asse Roma-Pescara, città quest’ultima che all’epoca era molto viva nell’abito delle proposte artistiche sperimentali. Ricordo ad esempio quel folle visionario, Cesare Manzo, ideatore della rassegna d’arte contemporanea Fuoriuso che tanto ha influenzato in me l’esercizio della pratica dell’impraticabile.

Preciso che, almeno nel mondo dell’arte, non ho mai creduto al fenomeno dell’associazionismo inteso come statuto e “regoluncola” perché “la gabbia” ha come risultato, nel medio periodo, l’instaurazione di  rapporti forzati, tossici e poco flessibili in un contesto che necessita la libertà assoluta. La forma ingenua del Collettivo, già all’epoca, bypassava quest’impasse.

Ci tengo a ricordare questi momenti un po’ datati perché – come detto in sorda premessa – occorre rammentare il passato per capire come il presente sia stato influenzato, se non addirittura creato, e che a sua volta il presente potrà essere la base per il prossimo futuro. Il motto di PopAct che coniai e che fu accolto dai miei amici era, non a caso: “Il futuro è contemporaneo, la strada è la sua voce”. Qualche anno dopo, nel 2010, grazie al supporto fattivo del Collettivo diressi la Biennale Marsica nel Borgo di Antrosano, nella Marsica, riconosciuto temporaneamente dalla comunità locale come “Borgo di Artisti e Poeti”. L’evento multidisciplinare ebbe nella sezione delle arti figurative la curatela di Lorenzo Canova e nella sezione poesia ebbi la possibilità di organizzare e dirigere come MC il primo poetry slam d’Abruzzo.

In quel contesto capii come un apparente e insignificante evento artistico comunitario potesse nel suo piccolo avere una valenza sociale e in un certo senso cambiarne le connotazioni socio-antropologiche. Lo scopo dei Cannibali nasce dalla mia fissazione videodocumentaristica esplorata in quegli anni grazie alla frequentazione di registi, documentaristi, film e videomaker. Con questo progetto, se pur inizialmente virtuale, mi prefiggevo di agire con la documentazione un fenomeno nascente (“quella cosa strana del poetry slam”) turbolento, a tratti rivoluzionario, e creare prassi, dibattito, scambio di conoscenza e informazione attraverso lo strumento dell’intervista ai protagonisti. All’epoca si faceva fatica a parlare di “movimento” del poetry slam o di “genere” poetico ma non mi interessava più di tanto questo dibattito. A me interessava capire come questa “strana massa informe” si muoveva, interagiva, moriva e rinasceva, consapevole delle derive individualistiche che, come ogni flusso entropico, si sarebbero presentate. A me non è mai interessato il singolo. Il singolo, se pur dava il contributo con l’intervista, era il taxi per raggiungere altri fini: preservare e consolidare una comunità (?) che stava nascendo timidamente e incessantemente. Il progetto Slam[Contem]Poetry è stato un atto politico, una missione di preservazione della comunità poetica che stava nascendo, che io sentivo come essenziale per la nostra cultura.

La prima intervista, tanto per memoria, fu rilasciata da Dome Bulfaro con il quale nacque sin da subito una profonda stima e un feeling particolare su visioni e approcci nel capire cosa stesse succedendo in quegli anni. Sì, perché prima di tutto oltre al fare la mia premura era anche capire dove si stava andando e perché. Ripeto, non mi interessava l’ape o la regina, mi interessava l’alveare e se la comunità stava producendo un buon miele. Negli anni il consolidamento e lo sviluppo del progetto Slam[Contem]Poetry è stato pressocché solitario. A parte un supporto iniziale di Alessandro Scanu, co-fondatore del Collettivo Poetry Slam Abruzzo Centro Italia, non ho avuto aiuto da nessuno. Eppure, sostenuto dai numerosi riscontri che man mano incassavo, avevo lo stimolo di andare avanti spendendo energie personali per un fine pubblico. Oggi l’attività editoriale è a rilento per questioni mie ma lo spazio web resta un documento storico di un periodo in cui si tracciano le primitive e non “calcolatrici” considerazioni di chi si è cimentato nel poetry slam. Ecco in sintesi ciò che sta dietro al progetto Slam[Contem]Poetry: me e la comunità fatta delle voci della nuova poesia italiana, raccolte tra l’altro nel 2017 nella prima compilation delle voci collettive della poesia italiana. Poi si sa, sono nate altre iniziative anche di questo genere.

La tua storia nel poetry slam comincia presto, non solo col tuo blog ma anche organizzando e partecipando agli eventi. Come hai vissuto i primi anni all’interno della scena? Cosa fai ora al riguardo, e in generale qual è la tua attuale prospettiva sull’universo slam?

In realtà non inizia molto presto. Inizia lontano dalle scene di riferimento soprattutto lombarde, friulane e piemontesi. In questo mi sono sentito una sorta di Celestino V, ai margini di un sistema grezzo e semi-consolidato. Intorno a me c’era il nulla e questo mi eccitava. Come anticipato il mio cammino inizia nel 2010 in qualità di organizzatore-pioniere, quando internet non aveva molte informazioni se non quelle diffuse dall’amico Lello Voce. Fu un caso assoluto anche per me l’esserne venuto a conoscenza; uno dei miei compagni di POPact mi segnalò che Lello faceva cose interessanti ma all’epoca non lo conoscevo e feci tutto solo basandomi sulla poca documentazione che girava in rete. Eppure l’iniziativa all’interno della manifestazione Biennale Marsica si rivelò fortunatissima perché accorsero più di ottanta persone e numerosi poeti anche da fuori regione. Per la cronaca vinse la performer umbra Barbara Pinchi e fu incredibile come per un lasso di tempo un ignoto borgo diventasse un punto di riferimento.

In quegli anni la scena già c’era ed era polarizzata in alcune città, inoltre il “fenomeno” non era stratificato in una “comunità” consolidata anche perché la “comune” tradizionale lo ripudiava e di conseguenza chi lo praticava era visto come una sorta di UFO dissidente. Mi ricordo che di tanto in tanto ricevevo telefonate assurde dei/delle “capetti/e” velleitar-poeti/e delle varie associazioni culturali locali i/le quali mi rimproveravano su cosa stessi proponendo al pubblico! Assurdo. In effetti quando si innesta a un albero di mele un ramo di pere, all’inizio ci può essere un rigetto ma poi la pianta può essere migliore. Cercavo comunque di mantenere buone relazioni con tutti/e innestando il mio cavallo di Troia all’interno di quei fortini apparentemente inaccessibili. In quel periodo in cui ci sono stati tentativi più o meno fortunati di scene polarizzate portate avanti con caparbietà da singoli sognatori spesso gli slam erano a invito, contraddicendo secondo me la natura stessa del poetry slam, ma lascio questo dibattito storico a chi ha percorso concretamente la scena dal 2001 al 2010 circa.

Nel corso degli anni (dal 2010 circa) si è maturati e si è arrivati fino al 2013, periodo della “coscientizzazione”, come la intendeva Freire, nel senso urgenza di definire e far rispondere l’anima di un ipotetico “movimento” alla domanda “Chi siamo?”. Oggi abbiamo la risposta?

Quel momento a mio avviso ha come spartiacque la costituzione della LIPS e dei Collettivi. In Abruzzo dal 2013 ho sviluppato insieme a altri compagni di viaggio il Collettivo Poetry Slam Abruzzo Centro Italia che in quegli anni era diventato uno dei punti di riferimento della scena slammistica italiana grazie all’organizzazione di slam e workshop anche in collaborazione con l’Università. Ovviamente ho partecipato a molti slam e finali macro-regionali targati LIPS, e sono stato ospite dei maggiori tornei di poetry slam italiani del tempo (Roma, Torino, Milano e La Spezia). Tuttavia non ho perso per strada la voglia di giocare con altre esperienze. Sempre dal 2016 mi sono occupato del rapporto tra poetry slam e TV, tant’è che riuscii a stabilire una collaborazione con la redazione di One Talent Tv sui poetry slamorganizzati e da me condotti. L’emittente diffuse prima sulla piattaforma web e poi sul digitale terrestre (Canale 66) le performance dei partecipanti. Questa è stata una partnership storica che, a memoria, ha avviato un dibattito sul rapporto tra poetry slam e TV successivamente portato avanti da altri.

Tornando agli anni 2016 e 2017 con il Collettivo riuscimmo a diventare, in ambito LIPS, il primo scenario slammistico universitario, terzo studentesco e quinto assoluto in Italia per numero di slam, ma la cosa più importante è che sino ad oggi abbiamo coinvolto più di centosettanta slammer provenienti anche dall’estero e da quasi tutte le regioni italiane. Tra gli altri contributi che ho dato alla scena in senso lato, nel 2016 accettai l’invito di Dome Bulfaro per elaborare alcuni contributi testuali alla pubblicazione Guida liquida al poetry slam (Agenzia X) e nel 2017 insieme a Gabriele Frasca e Rosaria Lo Russo feci parte della giuria del primo web slam italiano nell’ambito Poverarte, il Festival di tutte le Arti.

In aggiunta da allora mi sono divertito a sperimentare variazioni del format, ad esempio sporcandomi le mani con il primo poetry slam studentesco in più lingue, il primo poetry slam in un Centro Commerciale in mezzo al flusso dei clienti, il primo poetry slam VR360°, il primo torneo di poetry slam del centro sud e il primo poetry slam in un istituto scolastico con poesie create dall’intelligenza artificiale. Mi sono divertito molto in quegli anni e spero di divertirmi ancora. Ho sempre cercato di guardare il “sistema umano” e il “movimento” per anticipare le ulteriori “diramazioni viatiche” di un flusso poetico inarrestabile, sperimentando, fallendo, criticando in modo costruttivo i diversi approcci relazionali che stavano nascendo in seno alla rete dei collettivi e alla LIPS. Questo mio approccio mi ha ovviamente portato a essere criticato ma con il confronto ne sono uscito sempre più forte. Ricordo le pressioni che ricevevo per far sparire addirittura il sito internet che avevo realizzato per il Collettivo Poetry Slam Abruzzo! Assurdo Bis (e ce ne sarebbero tantissimi altri di aneddoti del genere). Oggi le cose sono cambiate tantissimo, grazie soprattutto allo sviluppo dei nuovi media che rendono facile comunicare, produrre contenuti e condividerli. Oggi mi pare che la scena, come un ciclo, si stia ri-polarizzando in alcuni centri – non di certo in modo casuale ma grazie al grosso lavoro di alcuni collettivi. Su questo aspetto raccontavo il piccolo “modello abruzzese” come una scena che, grazie al Collettivo Poetry Slam Abruzzo, ispiratore di altri collettivi nascenti, cercava comunque di mantenere una rete capillare, avendo presidi anche autonomi in ogni provincia e nelle città più rilevanti. Infatti in generale se da una parte l’imprenditorialità individualistica è stata sicuramente positiva per dettare il passo dall’altro canto rende il sistema più fragile perché può generare criticità nel solidificare una “rete sociale”. In poche parole manca un equilibrio sano tra l’organizzazione che un tempo polarizzava la scena a livello nazionale e le tante altre entità, gruppi e collettivi che ora la frammentano. Personalmente, considerati i molti impegni che ho, in questo momento vivo l’attuale scena slammistica da osservatore. A livello territoriale supporto, se occorre, il mio Collettivo che opera su Pescara, Chieti e Avezzano. In generale però mi pare che la performance e la trattazione di determinati temi rappresentati nella scena ricadano nelle modalità del monologo teatrale. Se non ci fosse il nesso “leggo il testo che ho scritto io e solo io” chi ascolta/vede/vive pensa di stare a teatro: da una parte va bene perché l’ibridazione è un punto di forza (in ogni ambito) ma dall’altra il rischio è  perdersi nell’arte attoriale, senza differenza alcuna, quindi il poeta ibridato in poeta-attore diventa un vero e proprio attore. In ultimo anche sui temi proposti nei poetry slam occorre fare una riflessione per non ritrovarsi a scrivere e proporre performance “natalizie” solo perché è Natale o “ecologiche” solo perché è in atto il cambiamento climatico (e mi fermo qui). La poesia, a mio avviso, non deve rincorrere o cavalcare l’onda. La poesia deve essere l’onda da cui tutto ha origine, altrimenti la “parlatura” è uno “spiegone” di noiosa e retorica cronaca trita e ritrita, nascosta da parole paracule che vanno a capo “ad capocchiam”, senza punteggiatura per ingraziarsi il tributo del pubblico: Gesù o Barabba? In effetti, se tale modalità paga anche in termini di visibilità, di inviti a festival e a eventi anche molto importanti ripeto a me stesso “Ehi, vecio posa il fiasco, non c’hai capito una mazza”, oppure “#staisereno e autorottamati, che è meglio”. Osservo e ascolto.

Un tema attorno cui ti sei molto concentrato, dedicandogli anche una serie di interviste su Slam[Contem]Poetry, è quello della nascita e dello sviluppo dei collettivi poetici all’interno dello scenario slam. Ora che lo stato dei collettivi è denso e portante, quali pensi siano i ruoli e le direzioni verso cui sia giusto si concentrino?

Faccio copia e incolla con la premessa della prima domanda: “Beh, intanto sentirti affermare una cosa del genere per un progetto che a maggio 2025 festeggia “boomericamente” i dieci anni mi fa tantissimo piacere” con la sola felice variante che lo studio che ho condotto sul tema dal titolo La nuova rete: i collettivi glocal della “poesia comunitaria”, iniziato al termine del 2016, è stato pubblicato e quindi “riconosciuto” nel mese di Settembre 2017 su Slam[Contem]Poetry e nel 2018 sul volume Stringi i denti e bruci dentro (AgenziaX) a cura di Lello Voce e Marco Philopat. Con questo approccio metodologico, che prevedeva l’analisi della scena tramite interviste (e, ahimè, ci risiamo!), volevo semplicemente far emergere come le realtà locali che alimentavano la scena nazionale fossero ben diverse da come venivano immaginate. Non c’era solo il poeta che partecipava agli eventi, facendosi ospitare in cambio di una birra, ma anche il fotografo, il grafico e tutta la “manovalanza” che si occupava della logistica, spostando sedie e documentando in maniera semi-professionale con video e fotografie. Era nata un’organizzazione spontanea, radicata nel territorio, con i veri protagonisti che erano altri oltre al “POETA”(!). Queste entità avevano una propria identità che, a mio avviso, doveva essere rispettata e riconosciuta in maniera inequivocabile, senza diventare l’ombra di nessun’altra. Sì, però non ero un sindacalista, eh!

Ricordo che il dibattito era molto acceso, perché parlare di “entità” percepite probabilmente come “separatiste” rispetto a un’organizzazione strutturata come la LIPS non era facile. La mia posizione probabilmente non fu pienamente compresa, o forse non riuscii io a comunicarla con la necessaria forza ed empatia, ma ero solo. Tuttavia oggi, almeno da quel che sento e vedo in giro, non è forse successo ciò che avevo intuito otto anni fa? Anzi, sembra che molti collettivi oggi abbiano polarizzato quasi tutta la scena, con tanto di logo identificativo. (Sacrilegio?) Questo non significa che chi lavora non debba ottenere gratificazioni e riconoscimenti, ma chi opera in questo campo deve anche garantire la vita di una rete solidale tra gli artisti su tutto il territorio, se prima ha usufruito di una struttura organizzata. Già nell’articolo avevo proposto la creazione di un tabellone di spettacoli di poesia performativa con i performer più rappresentativi dei Collettivi che avrebbero potuto girare uniti e compatti presentando l’offerta artistica a teatri, enti e associazioni in modo da identificarla inequivocabilmente come “poesia performativa”. Oggi sembra che stia accadendo ciò che avviene anche nei tradizionali circoli e salotti letterari che avevo tanto ripudiato sin dall’inizio della mia esperienza ventennale: il fenomeno del “canescioltismo”. Ma va bene così. Non lo dico in senso negativo ma in senso pragmatico: le traversate in solitaria in mare le fa Giovanni Soldini e qualcun altro. Gli altri o si perdono o si schiantano al primo scoglio, se va bene. Per questo occorre che la Comunità resti coesa, se esiste davvero. Per essere chiari, il progresso di un qualsiasi movimento/scena (tennistico, culturale etc) non si misura dal numero di campioni del mondo che si affilano ma dal substrato che ci sta sotto. Una frase che porto sempre con me e che ho profondamente interiorizzato è quella di Domenico Petrini: «I piedi nel borgo ma la testa nel mondo». Oggi, per esprimere al meglio ciò che intendo, la rielaboro così: «I piedi nel passato ma la testa nel futuro».

Il tuo interesse è orientato anche verso la poesia multimediale, dalla videopoesia (oltre alle tue diverse opere sei direttore artistico del Festival Hombres di Videopoesia) alla poesia in musica (come nel libro+cd Status d’amore). In quale modo pensi la performance del testo debba rimodularsi nel momento in cui entra in contatto con altri linguaggi?

Quando abbiamo concepito l’audiolibro è stato un lavoro curato fino all’ultimo beat: parole, ritmo e intensità della voce dovevano fondersi con la musica, o viceversa. Roberto Bisegna, il compositore, e Corrado Oddi, l’interprete, sono stati bravissimi nel cogliere questa dinamica. Abbiamo passato giornate intere in studio a discutere – talvolta animatamente – su dove collocare un accento, quanto allungare una pausa, come modulare l’intensità. È stato un lavoro appagante, anche se non ero io a leggere: ho presidiato ogni fase per imparare un nuovo modo di fare poesia, diverso dai reading di Jazz Poetry che avevo sperimentato, dove domina invece l’improvvisazione.

La videopoesia invece la vedo come un terreno più complesso, soprattutto quando si aggiungono alla parola e all’immagine anche la musica e componenti performative che coinvolgono l’interprete. Il discorso sarebbe lungo, ma il concetto di base è simile all’audiolibro. Io lavoro con una sorta di mappa concettuale che funge da spartito “videoparolmusicale”, in cui il poeta lascia il posto alla figura del regista-equilibrista, che tiene insieme tutte le parti e guarda all’equilibrio complessivo senza cedere all’edonismo o al narcisismo.

Con il Premio Hombres, di cui curo la direzione artistica da molti anni, ho l’opportunità di visionare e analizzare video provenienti da ogni parte del mondo. Devo dire che anche in Italia negli ultimi anni sono state realizzate opere di grande interesse. Tuttavia la strada è ancora lunga perché la videopoesia diventi un fenomeno culturale di massa, come già accade in altri paesi.

Tra i tuoi progetti più recenti c’è Pugni al petto, il tuo primo romanzo, per la cui promozione hai anche scelto delle vie fisicamente affaticanti. Com’è stato affrontare quest’altra modalità di scrittura? Come ti è arrivata l’urgenza di realizzazione di questo libro?

Per me scrivere un romanzo è stato un atto innaturale e costrittivo. Venendo dalla poesia che per me è ribellione totale nei tempi da dedicare alla scrittura mi sono catapultato in un contesto in cui la disciplina fisica era la prima cosa. Ho pensato a Vittorio Alfieri che prima di iniziare a scrivere si faceva legare al tavolo da lavoro dal suo servitore Elia per concentrarsi e dedicarsi interamente alla scrittura. Per il resto avevo semplicemente una storia da raccontare a bagnomaria da dieci anni, perché non avevo trovato fino al 2020 le giuste vie narrative che poi sono riuscito a sviluppare in modo convincente. Il titolo è evocativo dell’atto per cui il protagonista, che frequentava un istituto militare, doveva correre intorno a un “Campaccio” con i pugni al petto per scontare le punizioni dei superiori. Ho corso tre maratone (Venezia, Milano e Roma) di corsa con i pugni al petto ma questo atto/gesto non è stato finalizzata alla promozione del libro.

Sostengo che il gesto della scrittura che si limita a tracciare segni e parole sulla carta non sia sufficiente a esprimere tutto ciò che resta nascosto nel testo prima e dopo la narrazione. Per questo motivo ripercorrere fisicamente attraverso la corsa il gesto dei pugni al petto che dà il titolo al libro mi ha permesso di rendere il linguaggio completo, di riappropriarmi di una vitalità concreta e tangibile. L’aver corso la maratona di  Venezia, per esempio, dove lo stesso libro è ambientato, ha trasformato almeno idealmente la città in un grande ‘Teatro-Campaccio’, un palcoscenico lungo 42 chilometri. Durante questa performance urbana il gesto stesso è diventato il messaggio, il cuore della storia che stavo raccontando. Inoltre l’idea e la tensione che abitano Pugni al petto mi hanno riportato alle radici più primitive del linguaggio trasformandolo in movimento, battito del cuore, odore, tensione muscolare, suono della voce.


  1. Il Premio Avezzano nasce nel 1949 come “Mostra Marsicana di Pittura” fondata da Angelo Donato Tirabassi, intellettuale e docente di Avezzano, con l’intento di promuovere l’arte contemporanea in Abruzzo. Questa iniziativa si inserisce nel contesto della Settimana Marsicana, un evento che celebrava le tradizioni locali, l’artigianato, l’agricoltura e la cultura della Marsica. Nel corso degli anni la rassegna si è evoluta acquisendo sempre maggiore prestigio e diventando un punto di riferimento per gli artisti contemporanei italiani. Fino al 1970 il Premio Avezzano ha rappresentato una delle principali manifestazioni artistiche nazionali, attirando l’attenzione di critici e collezionisti. ↩︎