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Poesia e carcere – Parla Viola Margaglio

Torniamo sul tema poesia e carcere. Lo scorso mese abbiamo pubblicato l’articolo Poesia e carcere, redatto da Francesco Kento Carlo, nel quale si parla del primo Poetry Slam facente parte del campionato LIPS organizzato all’interno dell’Istituto Penale Minorile Casal del Marmo, a Roma. Oggi approfondiamo la conoscenza di questo slam attraverso la ricca testimonianza di Viola Margaglio, una delle slammer in gara quel 12 dicembre 2019. Potete leggere qui e qui i precedenti articoli dedicati allo stesso tema.

viola margaglio

Viola Margaglio è dottoressa in Psicologia Scolastica e di Comunità, artista spoken word e rapper con lo pseudonimo di lupa_de_mar. Vive nel quartiere di Ostia dove ha fondato il PoetryClan, collettivo che promuove in dialogo col territorio eventi di arte, poetry slam e hip-hop.


Osservazione partecipante di un poetry slam in un istituto penitenziario minorile italiano – di Viola Margaglio

La mia avventura inizia più di tre mesi prima dell’evento in questione, quando F. [N.d.R. Francesco Kento Carlo] – rapper ed operatore esperto in laboratori di scrittura rap con detenuti – invita me e altri slammers adulti attivi nel circuito LIPS a organizzare un poetry slam nell’IPM in occasione della loro festa natalizia. F. è un operatore con contratto a progetto all’interno dell’IPM in questione. Ci informa del fatto che V. – la capo-educatrice responsabile – è entusiasta della sua idea, così ci chiede i nostri dati per avanzare la richiesta formale di permesso per l’ingresso nostro e dei materiali utili, come lavagnette, microfoni, ecc.

Fin da subito, F. ci mette al corrente delle regole da tenere bene a mente, come il divieto di introdurre cellulari e di dare ai ragazzi qualsiasi tipo di oggetto. Ci propone di inscenare un poetry slam con tutte le regole della LIPS, e di coinvolgere cinque dei ragazzi detenuti come giurati. Ci spiega che alcuni di loro scrivono rime e hanno sviluppato competenze grazie al laboratorio di rap, e che forse si sarebbero esibiti tra una manche e l’altra del nostro slam. Inoltre, ci annuncia che, per l’occasione, sarebbe potuta essere eccezionalmente presente la sezione femminile e, per tanto, sarebbe stata ancora più importante la presenza di slammers di generi misti, per poter incoraggiare tutto il giovane pubblico. Le indicazioni e gli annunci di F. continuano ad arrivare con premura e regolarità.

In questi mesi che precedono l’evento, immagino i cancelli, una grande stanza spoglia e fredda piena di ragazzi e ragazze vitali e scalmanati, il tremore nell’esporre le mie poesie davanti a loro; ma cerco di tenere a bada la mia costruzione di aspettative, poiché si tratta della mia prima esperienza diretta con il contesto carcerario e voglio accoglierla nella maniera più ricettiva e disponibile possibile. Negli ultimi giorni scelgo i componimenti da portare, prediligendo temi incoraggianti e uno stile maggiormente proteso verso il rap. Neanche gli altri slammers partecipanti avevano già fatto una simile attività. La squadra che infine si forma è costituita da quattro poeti di genere maschile, due poetesse – me compresa – e un poeta che si presta nel ruolo di maestro di cerimonie insieme ad F.

Finalmente, nel freddo pomeriggio del 12 dicembre diamo concreto moto all’attività. Noi poeti esterni ed F. – che percepiamo come il nostro mediatore culturale- ci raduniamo nel parcheggio antistante le alte mura del penitenziario. Intanto che arrivano tutti il clima è gioviale, si manifesta il piacere di re-incontrarsi o di conoscersi per la prima volta, e si smorza l’inevitabile tensione con delle battute sulla nostra presenza nel contesto tanto particolare a cui stiamo per accedere. Dopo aver verificato di avere con noi tutta l’attrezzatura necessaria, attraversiamo la piccola porta, oltre la quale incontriamo una sezione dedicata al riconoscimento e ai controlli. Mentre ognuno di noi dà il suo documento alla guardia dietro il vetro, F. ci dice che sta arrivando una persona molto speciale, “Lei è Wonder Woman” dice. Difatti, dopo qualche istante giunge V. – educatrice dell’IPM -, che si presenta con un gran sorriso e una vigorosa stretta di mano, e sembra accoglierci con entusiasmo genuino e gioioso, cominciando fin da subito a darci informazioni e a coordinare l’attività. Con una lentezza di tempi a cui ero preparata, proseguiamo l’iter per poter finalmente accedere all’interno: ciascuno viene chiamato dalla guardia e gli viene consegnata una chiave di un armadietto dentro il quale lasciamo i nostri cellulari e tutto ciò che non costituisce attrezzatura indispensabile per lo spettacolo, poi passiamo attraverso una cornice metal detector e, infine, veniamo controllati uno per uno dalla guardia.
Guidata da V., la nostra astrusa e trepidante comitiva si mette in cammino. Il primo blocco che ci viene presentato è quello del bar riservato al personale e degli uffici, ambienti caldi e apparentemente ben tenuti. Ci viene data la possibilità di ristorarci, ma accettiamo semplicemente l’opportunità di utilizzare il bagno, e poi siamo pronti per raggiungere la sala dedicata allo slam. Per arrivarci, attraversiamo l’ampio cortile che collega le palazzine degli alloggi – quella per i minori di genere maschile, quella per i ragazzi dai 18 ai 25 e quella per le ragazze – la chiesa e l’edificio dedicato alle attività laboratoriali. Veniamo condotti direttamente nel “teatro”, che ci ospiterà, e le pareti di questa stanza di medie dimensioni ci sorprendono con i colori dei disegni che le ricoprono. In seguito, scopriamo che le bellissime opere sono frutto del laboratorio di arte e che sono esposte lì proprio in occasione della festa di Natale. Man mano, incontriamo sempre più operatrici e operatori, che ci sorridono e salutano, e parlano serenamente tra loro. Per diversi minuti (ormai impossibile calcolare i tempi precisi, poiché avendo lasciato fuori i cellulari rimaniamo quasi tutti senza orologio), alcuni di noi montano l’impianto di amplificazione e provano i microfoni, mentre io mi guardo attorno e chiacchiero con l’altra poetessa dell’esperienza che stiamo per vivere.

F. ci invita a sederci in maniera da trovarci in mezzo ai ragazzi, e io accetto di buon grado l’invito, mettendomi in seconda fila; altri poeti rimangono invece nei pressi del piccolo palco, e solo molto dopo si spostano tra le file. I giovani detenuti cominciano a riempire la sala: sono vestiti e pettinati come comuni adolescenti d’oggi e si comportano in maniera vivace, ma non noto rilevanti situazioni di confusione. Nemmeno l’arrivo del gruppetto delle ragazze, evento che ci avevano preannunciato come straordinario, genera particolare disordine; maschi e femmine sembrano osservarsi discretamente, al massimo bisbigliano qualcosa al loro compagno o compagna, perché tra le due sezioni non c’è il permesso di interagire.

Nel chiacchiericcio generale, V. gira tra le file per consegnare le cinque lavagnette con annessi gessetti ai ragazzi scelti come giurati: “normalmente” la scelta della giuria di uno slam è casuale, ma in questo caso V. propone che siano selezionati i ragazzi e le ragazze con un livello di alfabetizzazione adeguato. In effetti, già da un’impressione visiva e uditiva superficiale, noto che molti di loro potrebbero essere di etnie straniere, e avere poca familiarità con la lingua e la numerazione italiane. A riguardo, mi ritrovo seduta nel raggio di conversazione di tre ragazzi che parlano in spagnolo sudamericano; distrattamente colgo qualche parola circa il fatto che uno di loro sarebbe presto andato in comunità. In un momento di pausa di questa loro conversazione, mi rivolgo al ragazzo accanto a me sfoggiando il mio spagnolo colombiano; gli chiedo la sua origine e mi risponde che viene dal Cile; replico con un breve commento sull’attuale mobilitazione cilena e poi rispondo al suo interrogativo circa il mio padroneggiare la lingua raccontandogli della mia esperienza in Colombia l’anno passato.

Alfine, gli MC danno vigoroso inizio allo slam. Dopo alcuni sentiti convenevoli rivolti agli educatori e ai ragazzi e la spiegazione del sistema di voto, si passa alla presentazione di noi slammers. Un fatto curioso è che gli educatori, forse non conoscendo il funzionamento di questa competizione giocosa, avevano preparato insieme ai ragazzi delle palettine di carta con scritto un “Sì” verde su una facciata e un “No” rosso sull’altra, così che tutti i ragazzi potessero esprimersi. Per ora siamo ancora dei volti disorientati e una semplice lista di nomi agli occhi dei ragazzi, ma gli applausi scrosciano fin da subito ogni volta che gli MC provano ad animare l’entusiasmo e il supporto nella sala.

Come da tradizione, ci vuole un sacrifice – un poeta che rompa il ghiaccio performando fuori gara -, ruolo per il quale si presta F., già conosciuto dai ragazzi che avevano fatto il laboratorio, ma non molto dagli altri. La sua performance, fortemente improntata su uno stile rap, viene accolta con calore. Quindi, è il turno di noi slammers: ognuno di noi sale sul piccolo palco e riceve da F. l’invito a dire qualcosa di sé; poi si passa alle introduzioni dei componimenti e alle performances vere e proprie. Siamo un gruppo molto variegato a livello di età, modi e stili: si va dal poeta-rapper ventunenne al poeta lirico con diversi anni di più.

Dopo ogni performance, i ragazzi votano scrivendo i numeri sulle lavagnette o esprimono le loro preferenze con le palette di carta. Le votazioni sono tendenzialmente molto positive e molto alte; anche se, sulla scherzosa proposta di uno di loro, i giurati cominciano a fare un largo utilizzo del voto 10+ o 10 e lode; faticano a utilizzare i decimali, ma fioccano anche voti intermedi o estremamente bassi, come uno zero.

Al mio turno nella prima manche, cerco di pormi in maniera rilassata, senza nascondere l’emozione e il grande entusiasmo di essere lì. Per introdurre il mio primo componimento ne esplicito il tema, non senza ironica solennità: la libertà. Di fatto, mi affretto a dire che ritengo i miei uditori i veri esperti di questo argomento, e spero che, alla fine dello slam, vengano a dirmi cosa ne pensano della mia visione. Poi, cercando il contatto visivo con la platea, mi lancio in un’esibizione basata su una ritmica fortemente rap e sull’utilizzo di più lingue: inglese, italiano e spagnolo sudamericano. È proprio l’emersione di quest’ultimo idioma a scatenare un’ovazione a scena aperta, che mi costringe a prendere tempo affinché si possa sentire anche il resto delle parole. L’ovazione si ripete anche alla fine e mi accompagna mentre riprendo posto, tra gli sguardi luminosi dei ragazzi, e V. che si era nel frattempo seduta al mio fianco mi sussurra “Hai spaccato!”.

Dal contatto visivo, gli applausi, e le risate in risposta alle eventuali battute dei poeti, deduco che l’attenzione del giovane pubblico rimane per tutto il tempo tra un livello medio alto e molto alto. Si potrebbe registrare un fisiologico calo nella seconda metà, ma compensato da un picco di coinvolgimento sulla fine.

Alla fine della prima manche, vengono invitati a salire sul palco due ragazzi di origine egiziana che si esibiscono con alcune loro canzoni rap. Mi stupisco nel sentire V. cantare ogni singola parola di uno dei componimenti, che scopro poi provenire da un lavoro di scrittura collettiva operato durante il laboratorio con F.

Per carenza di tempo a disposizione, si decide di passare direttamente a una finale con i quattro poeti più votati. Ho la fortuna di essere tra questi, e propongo un testo d’amore con struttura rap, ma dalle figure retoriche più tipicamente poetiche. Nell’introdurlo, colgo l’opportunità per riferire che effettivamente io faccio anche rap, e accenno alla difficoltà di essere ragazza in un mondo fortemente maschile e maschilista. Così facendo, spero di incoraggiare il piccolo gruppo di ragazze in fondo alla sala, con il quale non trovo occasione – o audacia – di interagire durante l’intero pomeriggio.

Il momento della premiazione del vincitore – che risulta essere il più giovane tra gli slammers – è particolarmente rilevante: è l’occasione per far dialogare il risultato dei due laboratori, quello di rap e quello di arti visive. Dopo i ringraziamenti di V., la responsabile del laboratorio artistico prende parola sul palco e fa un discorso emozionato in cui paragona le opere esposte sulle pareti a poesie, e rimarca su come questa bellezza, nel suo senso più alto, rappresenti la vera essenza di ciascun ragazzo. Al vincitore viene permesso di scegliere tra due disegni a carboncino, mentre a noialtri fanno pescare tra un mazzetto di cartoncini con sfumature colorate come premi di partecipazione. Dopo poco, mi si avvicina l’educatrice responsabile di questo laboratorio, che mi consegna l’altro disegno a carboncino: nonostante non avessi vinto, il ragazzo che l’aveva fatto, D. , ci teneva che lo avessi io. Appena più in là lo vedo e lo riconosco, è il ragazzo originario del Cile con cui avevo parlato prima dello slam. Fortemente emozionata, lo ringrazio personalmente e ci scambiamo anche un sentito abbraccio, presto interrotto dal ricordo delle convenzioni del contesto e dal conseguente imbarazzo.

L’evento si conclude nel migliore dei modi: lo slammer vincitore viene chiamato a creare un tappeto ritmico con la beatbox, mentre al di sopra di questa base si alternano vari ragazzi che portano i loro differenti accenti e le loro strofe, precedentemente scritte o improvvisate. In più momenti, nella sala si accende un entusiasmo incontenibile, e noi esterni ci scambiamo sguardi stupiti per il carisma e le capacità rivelati dai giovani detenuti. Le tematiche espresse sono varie: dall’attitudine di forza posta come necessaria per resistere ai problemi, al rammarico per quello che si è commesso, fino alla critica sociale.

Terminato il tempo a disposizione, tutti si scambiano calorosi saluti e complimenti reciproci. Io e gli altri slammers, come un mantra, ripetiamo a tutti i ragazzi di scrivere sempre o comunque di esprimersi come preferiscono; loro ci rispondono stringendoci la mano con gli occhi raggianti, senza lesinare ulteriori congratulazioni per l’arte che abbiamo condiviso con loro. Lo stesso avviene con le educatrici e operatori vari, con i quali ci fermiamo a parlare ancora a lungo, mentre smontiamo le attrezzature e si chiude l’edificio. Facendo qualche domanda, ho l’opportunità di individuare e confrontarmi con la tirocinante di psicologia presente. Mi riferisce che ha finito da tempo le ore previste, ma che è voluta rimanere lì con un semplice contratto da tirocinante, perché si sente come in famiglia e positivamente stimolata da un punto di vista professionale.

Il giorno dopo, F. ci invia due messaggi molto significativi riguardo i risultati dell’esperienza:

Ragazzi, ci tenevo a ringraziarvi di nuovo di tutto cuore, ieri siete stati magici. Tutte le educatrici e le insegnanti mi stanno tempestando di messaggi dicendo che bisogna rifarlo. I ragazzi ovviamente non possono farlo ma sono sicuro che la pensino allo stesso modo.

E qualche ora dopo:

Vi mando anche i ringraziamenti e i complimenti dei ragazzi. Alcuni di loro hanno detto che vogliono iniziare a scrivere, e altri che già scrivono, ma non hanno performato stavolta, dicono che la prossima troveranno il coraggio di salire sul palco. È stato un successone, lì dentro se ne parlerà ancora a lungo.

Quando giunse la proposta di F. a presentarci come slammers adulti in un IPM per offrire un poetry slam – che più che in altre occasioni si sarebbe posto come uno spettacolo di poesia performativa camuffato da competizione giocosa – sentii un immediato entusiasmo per tale opportunità di confrontarmi per la prima volta con il contesto carcerario e di mettere alla prova le mie ipotesi di ricerca circa gli effetti dello slam e dell’hip-hop con popolazione adolescente in situazioni di vulnerabilità. Ma in seguito, mi venne il dubbio circa il valore umanistico (ad es. il potenziale di empowerment) insito nel porci – e in un certo senso ‘imporci’ – come adulti competenti per offrire un servizio di intrattenimento. Parte di questa inquietudine ho potuto risolverla a priori: ho ragionato sul potenziale umano di ispirare e far fiorire consapevolezze e potenzialità negli altri attraverso l’espressione di sé, attraverso l’incarnazione dell’esempio. Di conseguenza, ho cominciato a immaginare quel gradino del palcoscenico, che mi innalzava al di sopra degli altri, non come un disequilibrio gerarchico, ma come l’opportunità di creare un focus attentivo sulla nostra libertà espressiva. Con tale fine in mente, ho modulato la scelta delle tematiche, dei componimenti e delle loro introduzioni. La perplessità rimanente, invece, è svanita solo con l’esperienza sul campo: la comunicazione verbale e non della maggioranza dei giovani detenuti in risposta ai nostri stimoli, unita ai messaggi inviateci a posteriori da F., hanno fatto emergere elementi rassicuranti in termini di riuscita creazione – seppur limitata – di senso di comunità e di empowerment psicologico e di comunità.

Personalmente, a partire dal momento in cui mi sono trovata seduta tra le decine di ragazzi e ragazze, ho quasi dimenticato la loro identità socialmente imposta di ‘detenuti’, ‘criminali’: percepivo semplicemente un gruppo di adolescenti. In generale, mi è parso che si creasse un terreno in cui tutti hanno potuto rinegoziare le proprie e altrui identità in maniera più funzionale.

Una riflessione aggiuntiva potrebbe essere fatta intorno alla loro capacità attentiva sorprendente e straordinaria, chissà, favorita dalla permanente assenza di telefoni cellulari all’interno dell’IPM.

Sono grata a tutti coloro che hanno contribuito alla riuscita di questa esperienza, non solo per il ricordo indelebile di gioia condivisa, ma anche per aver indirettamente gettato un fascio di luce sul mio futuro di psicologa scolastica e di comunità.