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Intervista ad Antonio Amadeus Pinnetti

Redazione Festivaletteratura di Mantova. Progetto Ekphrasis di Eleonora Fisco.

Antonio Amadeus Pinnetti è poeta, attore, regista e molto altro. Lombardo d’origine, è tra le maggiori voci dell’improslam in Italia.

Benvenuto, Antonio. Dunque, il tuo stile performativo include un elemento che non è frequente incontrare, l’improvvisazione. Come hai cominciato a portarla nella tua poesia? In quanta percentuale, nei tuoi componimenti, ci sono materiali preesistenti e quanto invece è lo spazio dell’impro?

Ciao Isidoro! Mi piacerebbe dirti un 100%, ma la verità è il più possibile, o tutto quello che riesco. Sono arrivato all’improvvisazione per caso, con un testo scritto sulla luna dove un uomo proveniente dal futuro chiedeva al pubblico presente in sala “che cos’è per te la Luna?”. Sulle risposte ricevute creavo l’introduzione a quello che poi era ed è il testo vero e proprio. I primi tentativi per lo più riuscirono, fa eccezione una serata a Genova dove la risposta é stata “Belin, la Luna…é la Luna.”, e io lì son rimasto ghiacciato, non sapendo come poetare su questa lapalissiana verità. Ho deciso di dare più versi e spazio all’improvvisazione ed ho “scritto” Esperimento, una poesia con apertura e chiusura definita ed improvvisazione nella parte centrale. L’evoluzione di questo tragitto pilotato è stata poi decidere di non aver niente di scritto. Mi piacerebbe dire che riesca ad improvvisare ogni verso o discorso, ma la realtà forse deludente per alcunə é che quando ricevo per l’ennesima volta come risposte alla domanda “di che cosa dovrebbe parlare per te una poesia?” parole o concetti come amore, vita, sentimenti, odio, lì non riesco ad inventare niente che non abbia già detto. Mi passano in testa discorsi già formulati, e se riesco
dico “come ho già detto quella volta…”. Però quando arrivano proposte inaspettate la sorpresa è una sfida ed uscirne é una soddisfazione! Tra le migliori mi ricordo al Festivaletteratura di Mantova un “mosche” che mi permise di fare dei voli pindarici stupendi (almeno per me), oppure a Milano un ragazzo ha proposto un tipo di lavorazione della ghisa ad alte temperature, o ancora gran cavallo di battaglia, in una
scuola elementare un bambino ha proposto “vodka”. Il gioco per me è quello: sorprendermi e cercare empatia con il pubblico. Se si raggiungono questi obbiettivi il risultato non potrà, secondo me, essere pessimo.

Lo spettacolo che porti in giro è dedicato alla tua famiglia, che ha gettato le basi delle tue attuali ricerche. Come sei arrivato, alla fine, alla poesia performativa?

Per lo spettacolo il motivo o la causa scatenante ha nome e cognome ed é Max Di Mario del gruppo Ripescati dalla Piena di Firenze. Un giorno mi chiese se potessi portare da loro uno spettacolo ed è stata la prima volta che mi veniva chiesto di costruire uno show in poesia. In quel momento avevo un argomento che gridava dentro di me e non parlare di che cosa sia la famiglia o l’esser famiglia sarebbe stato mentire: elaborare un percorso su questo è stato naturale ed importante per me in quei momenti. Non mi piacciono i lamentosi e per quanto io sia un nostalgico ho cercato di portare non un lamento, ma un augurio d’essere comunità (quindi famiglia) e mi piace raccontare che ho incontrato delle persone con una fantasia
indicibile e col dono ricercato di sapere quanto sia importante lo sguardo sul mondo. Ecco che i miei genitori inventavano le favole per farmi dormire riempiendole di paradossi ed invenzioni e io provo oggi con alcune improvvisazioni o poesie slam a parlare con le persone, nulla d’offensivo ma un segreto giocoso per imparare a fare gli occhiolini ai treni, quelli che si prendono e quelli che si perdono. La mia famiglia mi ha insegnato a non prendere il mondo troppo sul serio perché corre come un matto, che siamo un pulviscolo nell’universo e che ogni tanto si deve guardare il quadro generale delle cose per ammirare la maestosità del mondo. Quindi direi che abbiano risposto al cosa, il come é appunto l’area di ricerca.

La tua formazione è teatrale, da regista. Ci sono tecniche, strutture o altri ammenicoli mutuati dalle pratiche teatrali che applichi nel tuo performare e nel gestire il flusso dell’improvvisazione? E viceversa, c’è qualcosa dello slam che hai portato dentro il teatro?

Premetto che sono cresciuto in una famiglia in cui la fantasia e teatro erano di casa: mio papà una vita tra cabaret e osterie, mia mamma tra opera lirica e prosa come spettatrice, e la vita ogni tanto è uno spettacolo. Tra corsi alle elementari, liceo, poi la Civica scuola di teatro Paolo Grassi, ho io stesso più volte costeggiato il mondo del teatro. Per quanto riguarda l’ improvvisazione uno dei primi a premere perché provassi ad improvvisare è stato il regista Carmelo Rifici, il quale aveva capito me prima di me. Io volevo essere uno serio, di quelli da dramma, o meglio ancora da tragedia! Non volevo una narrazione semplice e diretta, che invece è quella che più prediligo adesso. Poi approdato alla Paolo Grassi ho incontrato Marco Macceri, col quale attorə e registə si sono cimentatə con gli études, una tecnica di studio di testi attraverso delle improvvisazioni dove giochi ciò che hai analizzato del testo usando però riferimenti vicini a te sia culturali che di vita, con il fine di comprendere il testo e poterti avvicinare ad una consapevolezza viva della scena. Elementi quali il conflitto, l’analisi del testo, mettere se stessi al servizio della storia sono strumenti che quando riesco provo ad applicare all’improvvisazione. Chiedere al pubblico di che cosa dovrebbe parlare una poesia ha lo scopo di proiettarmi verso l’obbiettivo di dire che tutto possa essere poesia, se riuscirò o meno a confermare questa tesi lo dirà la poesia stessa. Quella studiata in accademia era una pratica legata ad un teatro che può essere situazionale, poetico, filosofico, la scena slam nella sua varietà è per me un campo senza fronzoli nel quale giocare, sperimentare, dialogare con il pubblico. L’altra chiave valida è la classica distinzione tra giocare un testo e recitare (ri-citare), due processi simili eppure immensamente diversi. Insisto sul gioco perché per me é importante, non per sminuire ciò che cerco, ma per meglio definirlo. Se una poetessa eccellente come Gloria Riggio riprende il concetto di mistero nelle sue poesie ed un faro poeta come Simone Savogin parla di verità che uno
vorrebbe gridare al mondo, ecco che una via forse meno sacra, ma non ne son sicuro, è quella del gioco del dirsi che si può parlare di questo e di quello purché lo spazio di dialogo sia protetto, l’ascolto vivo e la parola libera. Della realtà slam nel teatro mi porto l’esperienza il cercare di arrivare al pubblico, come siamo e non come vorremmo apparire. Se le parole di Gnigne o Antigone trafiggono il cuore di chi ascolta è perché non mentono manco un secondo quando fanno poesia (non garantisco per quando scendono dal palco). Quello che mi vorrei portare dello slam nel teatro è il “noi per loro”, o ancora di più un senso di noi dove non c’è una distinzione tra pubblico e poeta, quando questo accade la serata é un successo.
Qualche giorno fa, a Venezia, dalle Solmarime, eravamo in uno spazio dove non c’erano microfoni e il pubblico era a mezzo passo da chi raccontava: quella situazione era stupenda poiché preveniva in ogni modo l’overacting, nel quale io stesso ogni tanto cado. Il mondo che la LIPS coltiva è di palchi grandi e piccoli per voci fragili o tonanti, senza definire cosa sia meglio, questo permette a molte persone di potersi esprimere.

Il team di PoesiaPresente realizza un format, a cui tu prendi parte, che avvicina l’improslam a una sua pratica cugina, il freestyle rap. Quali trovi siano i punti di relazione tra queste due discipline, e come pensi si possano ulteriormente intersecare ed evolvere?

Posso parlare di poesia, slam o improslam senza troppa esitazione, sul rap alzo le mani, apro l’ascolto e tifo per tutte le voci che sanno fare rap. Premesso che non credo in grandi distinzioni tra le arti, guardo ed ascolto cercando di capire cosa sia utile e cosa sia bello. Trovo stupendo l’incontro tra due realtà tanto affini. Se il rap con tutta la sua storia deriva e s’intreccia con le quattro (o cinque) arti del movimento hip-hop e deve molto e vive nelle strade allora il poetry slam che nasce nel 1985 in un locale di Chicago per opera di Marc Kelly Smith non é troppo distante, entrambi i movimenti sono espressione diretta del sentimento e gli ambienti in cui si diffondono sono vicini alle persone e lontani dalle poltrone di velluto. Incontri come quelli del torneo del Ring Rap Poetry Slam sono un momento di scambio e apprendimento, su tre round. Nel primo giro ci si basa su tre parole date dal pubblico improvvisando a cappella, nel secondo giro oltre alle parole si dà un tema e una base musicale, al terzo giro si aggiunge un genere (giallo, romantico, horror, musical) e si lascia scegliere se lasciare la base o no. Nel confronto e incontro
con persone affini al mondo del freestyle l’unica differenza che noto è nella mappatura del pensiero: chi arriva dallo slam tende più a costruire un discorso, mentre chi arriva dal rap ragiona per punchline, ovvero barre con chiuse capaci di colpire l’avversario, questo senza aprire il discorso sulle quartine spagnole.

(ndi: La quartina di coerenza, anche conosciute come quartina spagnola per l’utilizzo frequente che se ne fa nel mondo freestyle spagnolo, è una specifica costruzione del 4/4 nella quale vengono sacrificati intercalari e punchline dirette per preferire un discorso coerente che attraversi tutte e quattro le barre senza sacrificare la musicalità. Sebbene fossero presenti da sempre è solo negli ultimi anni, in cui il freestyle italiano ha molto guardato alla Spagna, che hanno avuto un riconoscimento specifico nella scena, cosa che ha anche generato diverse polemiche.)

Questa differenza però fa sì che entrambe le parti possano cambiare il loro orizzonte imparando da chi pratica una disciplina diversa. Ho avuto modo di parlare con Gabriel Arcy, Mc Nill, Greta Greza, Giuliano Logos, Matteo Di Genova e altrə e oltre al discorso sulla mappatura del racconto abbiamo identificato musica e ritmo come colonne importanti del rap declinate in modalità diverse nella poesia performativa. Credo che dal rap il mondo dello slam possa imparare l’immediatezza e l’incisività e alcuni rapper dallo slam possono apprendere l’arte del discorso. Di recente ci sono state le finali del torneo Ring Rap Poetry Slam Extreme, appunto un posto con poltrone in velluto dove per me non é ovvio passare, ed é stata una vittoria arrivarci con la poesia performativa. Qui assieme a me c’erano Mc Nill, Marco Dell’Omo e Stefano Goldaniga e la cosa più bella é come si siano mischiati e confrontati gli approcci d’ogni persona. Mc Nill, la cui bravura è manifesta, ha portato un monologo improvvisato dove non ha mai lasciato il personaggio che stava interpretando facendo un affondo spettacolare di profondità e sensibilità. La stessa Mc Nill che l’anno precedente aveva invece un impronta più da rapper: guardare il coraggio con il quale ha abbracciato la sfida é stato un esempio. Stefano Goldaniga invece ha deciso di surfare sul flow rendendo qualsiasi argomento un canto e incanto. Marco Dell’Omo con maestria ha attinto alle tecniche di teatro situazionale con spunti surreali. Altro esempio da citare è il rapper Anima che ho conosciuto a Milano come partecipante ad uno slam, la sua sincerità in scena era disarmante ed efficace. Lui ha anche costruito un progetto, VDP – Voci di periferia, dove più arti possono mettersi a confronto e per me poter passare sporadicamente da loro é stato un bel incontro con un pubblico che difficilmente potrei incrociare.
Di recente so che c’è stato un incontro tra il freestyler Higher, vincitore dell’ultimo Tecniche Perfette, e Gloria Riggio, campionessa italiana di poetry slam: questo può generare chissà quanti nuovi spunti essendo le loro abilità apparentemente opposte. Se Higher è un drago del freestyle ecco che Gloria Riggio é la costruzione, un esempio di cultura e ricerca della parola più adatta come suono o tassello d’un
mosaico dove niente é lasciato al caso. Incontri come questi possono essere un valido momento di studio.

Non essendo praticata da molti, l’improvvisazione dall’esterno mostra molto potenziale senza una mappatura precisa, e pochi limiti definiti. Avendola attraversata per molto tempo, quali pensi possano essere dei suggerimenti adatti per approcciarvisi? E quali, di contro, le parti critiche su cui personalmente stai ancora evolvendo?

Il primo consiglio, se posso provare a darne uno, é quello di ricercare delle strutture. La pagina bianca è ostica da poter abbattere, mentre in particolare all’inizio avere una struttura o dei compiti da seguire, anche generici, aiuta molto, è darsi delle direzioni. Qualche settimana fa ad un Dead or Alive Poetry Slam, ovvero una competizione dove si portano autori vivi e non più, mi son dato come traccia per la mia improvvisazione quella di dire quanto siano importanti le parole di chi non c’è più e quanto noi si sia vivi adesso con la possibilità e libertà di discutere. Questo semplice obiettivo permette di poter declinare più facilmente qualsiasi proposta si riceverà dal pubblico. La seconda indicazione è quella di cercare l’empatia del pubblico poiché è uno stimolo vivente. Il terzo è di riempirsi la testa di nozioni, immagini, dubbi, concetti, siano questi derivanti da libri, anime, canzoni, battle di freestyle, conferenze, poesie. Più immagini vive brillano nella testa e più sarà facile trovare collegamenti anche inaspettati. Come riferimenti, anche per riprendere i discorsi di prima, suggerirei le poesie improvvisate di David Riondino, la battle tra Kiave, Hyst ed Ensi al 2theBeat e un po’ tutta la prima generazione e seconda del Derby Club. Come criticità personali che vorrei abbattere rispondo affermando che sarei felice di riuscire a dialogare con la musica. Di recente a un corso che tengono Matteo Di Genova, Viola Margaglio e Giuliano Logos ho avuto modo di poter capire meglio come stare sulla musica e con la musica. Spesso sento il bisogno di rallentare per imparare e mi auguro che questo aspetto mio non cambi con gli anni e di non fossilizzarmi in quelle due o tre cose che forse ho capito. Mi piacerebbe anche riuscire a far scrivere il pubblico come accade a Pordenone Legge con quel folle e divertente rave letterario che é Carne di Romanzo. Mi auguro di non improvvisare troppo, mi piace moltissimo scrivere testi chiusi e definiti, perché si può lavorare di
cesello. Poi… abbiamo tanto parlato d’improvvisazione, e ora non so trovare una chiusa!
Ciao!