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Intervista a Francesca Tiresia Mazzoni

Francesca Tiresia Mazzoni è una poeta performativa di Benevento nata nell’88, attiva nello slam come organizzatrice (prima col collettivo Caspar e attualmente con Flysch Fact) e come performer. Tra i suoi progetti c’è anche Catash, formazione di poesia in musica finalista dell’edizione 2021 del Premio Dubito – edizione che vide vincitrice, peraltro, un altro progetto dallo stesso territorio: gli Osso Sacro guidati da Vittorio Zollo. Studia psicoterapia, e l’approfondimento del campo della bioenergetica sta cominciando a trovare spazio d’influenza anche nel suo performare.

Buondì Francesca, benvenuta. La tua presenza nello slam italiano è di lunga data, e a te si deve l’organizzazione dei primi eventi in Campania: come lo hai incontrato, e come hai deciso di portarlo nella tua regione?

Ciao Isidoro, piacere di essere intervistata da te. In effetti sì, bazzico la scena slam dal 2013, con i dovuti alti e bassi. Il primo slam a cui ho assistito fu a Bologna, organizzato da Silvia Parma. Fu bello; appena rientrata a Benevento, proposi ad un mio amico, proprietario di un circolo culturale/bettola/rifugio per scappati di casa, il Bukò (in omaggio a Bukowski), se potevo organizzarne uno da lui. Lo facemmo, fu uno slam rudimentale e molto emozionante; invece dei voti da 1 a 10, decisi che la preferenza si poteva esprimere a “farfalle nello stomaco”. Disegnammo pure le palette, stomaci da 1 a 4 farfalle dentro. Dal primo poi arrivò il secondo e diventò un appuntamento fisso e molto partecipato. Dal secondo o terzo anno iniziarono ad iscriversi persone dalle altre province, la voce girava veloce. Con Andrea Maio e Vittorio Zollo, fondammo Caspar, omaggio latente alla figura, secondo me, molto poetica di Kaspar Hauser, oltre che l’acronimo di Campania slam poetry associazione regionale, l’anno forse era il 2015. Le date non sono il mio forte. Come ho deciso di portarlo? L’ho fatto per me, in primis, per portare qualcosa di nuovo in una città di provincia dove la scena culturale o pseudo-culturale era solo per i pochi e soliti eletti, per prendere finalmente coraggio a leggere qualcosa in pubblico, perché sentivo che era giusto così e poteva funzionare. Ci ho messo due anni prima di portare un mio testo, all’inizio facevo solo da MC. Poi, da Benevento, abbiamo iniziato a girare, chiedevamo a circoli e locali di ospitarci, i più erano incuriositi dalla novità. Ci caricavamo la cassa, il mic, l’asta e le lavagnette e si andava dove ci dicevano di si. Così abbiamo incontrato tutte le altre persone che sono poi entrate in Caspar e che adesso continuano a mandarlo avanti. Io poi da Caspar sono uscita e ho fatto il cane sciolto per un po’ di anni; adesso, insieme ad altri due amici, Chiara e Francesco, abbiamo fondato un nuovo collettivo, Flysch Fact. Insieme a noi, nel giro di un anno e mezzo, sono stati fondati almeno altri due collettivi sul territorio campano. Questa è proprio l’age d’or del poetry slam, c’è un tumulto di collettivi in movimento davvero potente.

Tuttora, eccezion fatta proprio per la Campania, il calendario eventi LIPS è fortemente sbilanciato tra nord e sud: quali pensi siano le ragioni di ciò? Ci sono pratiche che avete adottato per portarlo nel vostro territorio con Caspar e che potrebbero avere efficacia nelle altre regioni in cui nuove voci faticano a emergere?

Posso provare ad immaginare le cause. La prima sicuramente è che la slam poetry si è infiltrata in Italia partendo dal nord e poi ha iniziato a scendere lentamente. All’inizio non c’era tutta questa presenza di collettivi e di mobilità dei partecipanti, quindi la cosa rimaneva all’interno della regione in cui si era sviluppata, diciamo. Probabilmente in altre regioni del sud potrebbe esserci stata una difficoltà di diffusione e di comunicazione fra le altre province; intendo che forse si organizzavano poetry slam e si fondavano collettivi ma il tutto restava circoscritto nella città di nascita. In Campania le cose sono andate diversamente perché, fin da subito, siamo stati fortemente itineranti. Non abbiamo innalzato nessuna roccaforte slam ma lo abbiamo reso nomade e capillare, adatto potenzialmente a qualsiasi contesto. La poesia con l’elitarismo si prende la sbornia triste, secondo me. Mi ricordo di uno slam organizzato in un santuario, con le suore sedute fra il pubblico. Oppure in ristoranti improbabili, bar di paese, ville comunali, centri sociali, durante le sagre. Questo, unito ad un buon substrato campano di profonda
tradizione teatrale e racconto orale e alla grande esigenza di farsi ascoltare con più attenzione, cercando di schivare gli stereotipi socio-culturali che, spesso, ci definiscono.

Passando di più alla tua pratica personale, al momento il tuo campo di ricerca sta cominciando a comprendere il corpo tra gli strumenti espressivi. Come sta andando quest’indagine? In che modo pensi che la parola performata e l’espressività corporea possano interagire?

La domandina semplice semplice! Ok, vediamo un po’: sicuramente l’incontro con l’analisi bioenergetica mi ha aperto tutto un nuovo mondo sul corpo come unità di memoria di ciò che sperimentiamo, a partire dalle primissime interazioni, già a livello uterino. Attualmente sono al terzo anno di scuola di specializzazione in psicoterapia proprio in questo approccio psico-corporeo. Sono in una fase di passaggio dall’esclusivo predominio del cognitivo con una considerazione del corpo come appendice ubbidiente della mente alla scoperta di un linguaggio del corpo che utilizza dei codici comunicativi di una potenza incredibile. “Il corpo non mente” diceva Lowen, fondatore della Bioenergetica. È proprio così. La parola è un bellissimo artificio, curativo e creativo ma il corpo, se ascoltato attentamente, è totalmente onesto, a volte crudelmente. La mia indagine non so come sta andando, mi sto rendendo conto che la mia parte cerebrale, che mi ha protetta in questi anni, mi ha dato rifugio ma mi ha anche molto isolata, si sta facendo da parte ad un sentire corporeo che mi proietta più sul movimento e sul contatto che sulla staticità e la
riflessione. Anche scrivere sta diventando complicato, onestamente. Allora credo che che il rapporto fra parola e corpo, potrei scoprirlo partendo dal basso verso l’alto, letteralmente. Dai piedi, a salire e quindi percorrere una strada inversa che dalla sensazione, dall’emozione, dal movimento arriva, solo all’ultimo, alla parola come rafforzativo corporeo, come strumento corporeo e non come esclusivo canale per raccontare le cose.

Il percorso che hai fatto per arrivare a performare è stato inverso a molte altre esperienze, essendo tu passata prima dal ruolo MC e organizzatrice, trovandoti poi in un secondo momento a vestire il ruolo di partecipante. Com’è avvenuto questo passaggio?

Il motivo principale era la forte paura di esporsi all’altro, sostanzialmente. Ma i miei confini non erano abbastanza forti, mi sentivo attraversata molto da ciò che mi succedeva intorno. Ho osservato, ho preso nota di come facevano gli altri; quando, di solito, ai poetry slam si raccomanda il pubblico di fare silenzio e prestare attenzione perché portare i propri versi non è facile, è una sacrosanta verità. Quindi sono partita da organizzatrice ed MC, per cercare un po’ di “miei simili”, forse. Sono arrivati, tutti un po’ ammaccati ma in piedi, con molta voglia di trovare un spazio safe dove esprimersi indisturbati. Sono felice, in tutta questa storia, di essere riuscita a creare proprio lo spazio in cui mi sarei voluta trovare io. E in questo spazio, in cui proteggevo e mi sentivo protetta, mi sono potuta aprire anche io. Credo sia stato il vero slancio che mi ha spinto ad organizzare il primo poetry slam. Mi commuove molto, se ci penso.

Nel tuo esplorare la parola performata hai anche virato verso la spoken word col tuo progetto Catash, assieme a Corrado Ciervo e Carlo Corso, inizialmente nato in forma di due e fortemente improntato alla relazione tra parola e percussione – tu stessa suoni tamburi a cornice. Com’è nato il progetto, e come avete esplorato la relazione tra suono e parola?

Catash è “la mia bambina difficile”. Ho la sensazione piacevole che sia qualcosa che ancora non è arrivata alla coscienza. Mi fa ridere il fatto che sia un progetto nato per necessità. Mi avevano chiesto di partecipare ad una serata di poesia performativa e, magari, di metterci un accompagnamento musicale. Allora proposi a Carlo Corso, all’epoca vivevamo insieme, se gli andava di provare qualcosa. Quindi all’inizio si, eravamo solo batteria, percussioni e voce. Scelsi un po’ di pezzi, feci una specie di canovaccio. Poi iniziammo a provare qualcosa, io cercavo di rimandare a Carlo, attraverso immagini o scenari, cosa il pezzo mi suscitava. Ad esempio, mi ricordo che per un pezzo gli dissi: “Immagina di stare in una stanza in penombra, dove intravedi solo gli oggetti, li senti funzionare ma non capisci da dove proviene il suono. E’ un appartamento tipo quelli dei film di Polanski”. Carlo, fortunatamente, mi seguiva in queste visioni un po’ sgangherate. Abbiamo fatto qualche serata in duo ma ci siamo resi conto che mancava una parte armonica che potesse dare un po’ più di corpo. Chiesi a Corrado Ciervo di entrare nel progetto con il suo violino e i synth; l’idea si rivelò molto buona. Carlo e Corrado sono due musicisti con una carica espressiva fortissima, oltre ad avere grande sensibilità nell’interplay. Nel 2021 partecipammo al Premio Dubito, arrivammo in finale al 3° posto, con una certa dose di incredulità. Ma in cuor nostro sapevamo che il progetto era forte e ci rappresentava. La relazione fra suono e parola è sempre stata paritaria; ho sempre insistito sul fatto che la musica avesse la stessa potenza e dignità del testo e non
facesse solo da accompagnamento o bordone. Per la creazione dei pezzi, in genere si procedeva così: lettura del testo, a volte chiedevo ai ragazzi di leggerli loro, per mischiare un po’ le prospettive, partivo con le immagini e gli scenari o il genere che mi sembrava adatto al testo e poi i ragazzi partivano con l’improvvisazione musicale. Quando mi sentivo pronta, entravo anche io. L’improvvisazione ha sempre fatto parte di Catash, credo sia proprio il fulcro del nostro progetto. Ci siamo lasciati la libertà di improvvisare anche durante i live, ovviamente con dei punti di riferimento che ci permettevano di rientrare nella struttura del pezzo. Credo che Catash sia stato, per noi, uno spazio di libera espressione, di sperimentazione; in qualche modo, credo sia l’emanazione diretta più vera della mia interiorità.