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Intervista a Diāvoli

Eleonora Davoli, o meglio, Diāvoli. Nata in un freddo giovedì a Modena. Partecipa, viaggia, ama e lotta. Chiama tutti i coperchi “tappo”. Le abbiamo fatto qualche domanda su come viva il suo agire poetico.

Buondì Diāvoli, benvenuta. Nella tua scrittura e nella sua messa in voce è salda e ben chiara una spina di resistenza, di rivendicazione, di riappropriazione: scorre sotterranea in certi testi, altre volte si manifesta esplicita. In che modo dialoghi con questa presenza, come la moduli in relazione a ciò che scrivi?

Più che una presenza, direi sia un’assenza quella che mi spinge ad esprimermi così. Mi muovo spesso tra mancanze occulte, sì. Secondo me è sotto terra che succedono le cose più interessanti. È un altrove interessante in cui ho iniziato a meglio comunicare, percepire il senso e sentirmi parte del tutto, così come della lotta di rivendicazione e riappropriazione in termini di legittimità e equità. Come i funghi, il mio micelio è fatto di queste cose qui. Niente clorofilla e meccanismi annessi. Quello che scrivo o canto deriva, cresce e si installa resistente su cose morte connesse tra loro, oscurità fertili con cui interagisco e scambio. E, come i funghi, passo molto tempo al cimitero. Animali morti, vegetali morti; ma anche diritti morti, persone morte. Non ho ancora trovato modo migliore, oltre a parlare coi morti, per tentare di riconciliarmi con la vita!

Rimanendo nel solco della resistenza, la tua breve raccolta Tu accendi, io tiro – Poesie di lotta, poesie d’amore fa convivere questi due temi che, storicamente, sono legati strettamente dal concetto di passione. Le tue passioni sono molte, dalla scrittura alla musica, dalla performance al podcasting: quanto la passione ti è motore, e quanto ostacolo, nel tuo agire poetico?

Non ho mai vissuto la passione come un’impedimento. Sono attraversata da emozioni violente e persistenti da che ho memoria. Nonostante il mio interesse verso il cristianesimo sia nullo, sono molto affezionata all’intensità e alla sofferenza. Tu accendi, io tiro è un libretto rosso fatto a mano che ho costruito con l’intento di disfare artigianalmente la capitalizzazione delle emozioni e del legame tra vita e morte attraverso l’immagine della molotov. Una molotov si fa con tre-quattro elementi contati e usati altrimenti rispetto al motivo originale per il quale sono stati concepiti. È il dispositivo hacker per eccellenza. Parlare d’amore e di lotta per me è la stessa cosa; non perchè connessi alla cultura della fatica, alla celebrazione del “se non l’ottieni sudando sangue, non è qualcosa per cui valga la pena”, ma per l’elemento gioioso, generativo, che li unisce. Due persone che fanno sesso o che usano una mano a testa per innescare una molotov convivono e dipingono la stessa illuminosa immagine incendiaria. Condivisione è insurrezione. 

Tra le tue esperienze c’è quella nel mondo dell’educazione, che in alcuni casi riesci a far comunicare con la pratica poetica attraverso laboratori. Com’è nata la voglia di mettere in comunicazione questi mondi? Credi che queste esperienze abbiano avuto risonanze con la tua scrittura personale?

Così come per numerose altre circostanze, non ho deciso quasi nulla a tavolino. Da più di quindici anni ormai mi prendo cura di chi studia e, nel corso del tempo, mi sembra di aver capito che i desideri principali siano quelli di esprimere e condividere. Della scuola e delle altre istituzioni totali penso le peggio cose; di studentesse e studenti, le migliori. Il modo in cui affrontano con estrema dignità quotidiana l’abuso di potere, mi commuove profondamente. A scuola si parla poco del fatto che siamo quel che lasciamo, o del fatto che siamo pieni di monumenti dedicati a pezzi di merda, o di sovversione. Nel pensare a cosa avrei potuto fare davvero per le persone adolescenti in questo presente di sabbie mobili, la poesia si è interposta tra me e qualsiasi altra azione educativa. Quello che scrivo migra e risuona di giorno in giorno al ritmo della contaminazione. Ecco perchè insegnare mi annoia a morte. A me piace quell’istante in cui qualcosa cambia, assistere al momento in cui i cervelli si percepiscono scintille disallineate e mai sole. Attimi che nulla hanno a che vedere con un 4 sul registro per mancata preparazione, o con Napoleone. Sento invece che la poesia si avvicina molto di più al modo di comunicare che chi vive la scuola contemporanea cerca. La poesia fatta assieme dona al desiderio di esserci, di manifestarsi, una certa orizzontalità. È un antidoto a contrasto delle forme di dominio. 

Il tuo recente progetto spoken word, Abissi, dialoga con un’area musicale che spesso non viene considerata tra quelle esplorabili in relazione alla poesia: il mondo del noise. Spesso, nel teorizzarlo, il noise viene definito come suono altro, con un valore politico legato all’espressione di ciò che sconfina oltre i codici – qualcosa che risuona con l’immaginario che descrivi in alcuni tuoi testi. Com’è arrivata la decisione di fare incontrare questi due mondi?

È avvenuto tutto in maniera molto naturale, tra noi. Abissi non poggia soltanto sui miei testi. È frutto del legame profondo che unisce me e i miei due compagni, coi quali condivido il desiderio di sperimentare all’interno di una dimensione estetica e etica. Il noise è separato dal rumore perchè è politico-apartitico e per merito delle tracce di senso che imprime, nient’altro. Anarchia. Non è traduzione né interpretariato. L’unica decisione che abbiamo effettivamente preso forse è quella di aleggiare distanti dalla decodifica, lasciando spazi e tempi informi a prendersi cura di noi e di chi ascolta. Abissi disegna una sinusoide curiosa, che prima affonda, poi risale e, dopo l’agitazione, prende coscienza e si stabilizza, prima di tornare felicemente al caos cui appartiene. Trasmettere l’armonia dell’irregolare ci fa stare bene e ci rappresenta, come singoli e come nucleo. Alex è come guardare il Myrdalssandur attraverso una finestra aperta col pane appoggiato sopra a raffreddare mentre fuori nevica e dentro, alle spalle, due parenti litigano, il cane è morbido e pranza, le cugine disegnano i mostri coi codini che hanno sognato ieri notte e la nonna sorride lieve, alleata; è un polistrumentista illegalmente capace, da processo, e voglio incredibilmente bene a lui e all’oceano che si porta dietro. E amo Alessandro moltissimo, nel suo modo di essere un umano e un artista visivo, in entrambi i casi con le radici affondate nelle tenebre così a fondo da riuscire a scorgere inimmaginabili albe dall’altra parte; se metti l’Appennino, un camino acceso, un grande fuoco che cucina sempre qualcosa, una pantera che legge Conrad e sorveglia il cratere che contiene i tuoi segreti più fragili, puoi vedere chiaramente lui. In questo momento, non immagino né me né Abissi senza la loro presenza. Non vivo di assoluti, anzi, sono una persona quasi priva di abitudini, e vagare all’interno di un atto generativo collettivo mai uguale a se stesso è quanto di più vicino a quello che voglio fare per ogni secondo di permanenza al mondo che mi resta. 

Hai annunciato recentemente una prossima uscita, un nuovo libro. Senza esagerare con le anticipazioni, puoi parlarcene un po’? Oltre a questo, c’è altro che bolle in pentola?

Tra non molto (immagino qualche settimana, giusto il tempo lasciar entrare la primavera) manderò in stampa Ne[v]ro. È un libro di poesie autoprodotto, così come Polpette Randage e Tu accendi, io tiro. L’autoproduzione è una scelta politica e economica che mi piace portare avanti. Per ora non ho pensato di procedere diversamente, affidandomi a editori per esempio, e vorrei proseguire in questo modo. Ne[v]ro sarà bianco su nero, lievemente illustrato, piccolo e breve, ma anche particolarmente duro. Lo vedo come onice nera. In pentola bolle questo, per il momento. Prima di salutarti, ne lascio qui un pezzettino che si chiama guarda. A presto, immagino. E grazie.

Ieri ho cercato tra i necrologi
il nome di mio padre.
Ho guardato bene, diviso per mesi
tutto l’anno scorso.
Ci ho messo un sacco di tempo,
anche a leggere i cordogli per gli altri, dico.
Studiare è senz’altro un mestiere
che succede tutte le volte 
dopo un sogno sbagliato,
un atto di compassione 
come l’oceano a contorno dell’ancora:
rivestire con tanto pongo
un rovo verticale
esteso dall’ano al cervelletto
per tramutarlo in carezza.


Ieri ho cercato tra i necrologi 
il nome di mio padre
senza speranza, ma con curiosità
piena di vergogna di essere 
senza speranza, ma con curiosità 
il nome di mio padre
sui necrologi non c’era. 
Stupore e abitudine 
in me
scostano le tende della cucina,
non trovano niente giù in strada
e si tengon per mano, così, guarda.


E infine, più ampiamente
qualcuno dovrà spiegarmi
perchè non volete che io sia triste

se troppe cose non hanno appello,
se la paura di amarsi indietro
sovrasta tutte le altre,
se la casualità che ci avvicina 
è figlia di energie che non conosco,
di una bellezza che fa pentire
di aver avuto vecchi fidanzati;

se le mie reazioni al male 
sono brava gente di montagna
che viene da tanto, tanto tempo fa.