Oggi intervistiamo Alessandra Racca (altresì conosciuta come la Signora dei calzini), torinese. È poeta, performer, organizzatrice di eventi, laboratori e corsi di scrittura in collaborazione con realtà come Loescher editore o la sabauda Scuola Holden, gestisce una rubrica per Torinosette e coordina una delle scene slam dalla più lunga storia, Atti Impuri Poetry Slam. Ha pubblicato diverse raccolte di poesia, tra cui Consigli di volo per bipedi pensanti e Di pancia (e di altri organi vitali), e da molti anni porta i suoi testi dal vivo con una serie di reading e spettacoli off.
Buondì Alessandra, benvenuta. Dunque, il tuo attraversamento dello slam in Italia è cominciato molto presto nella sua storia, ancora prima della nascita della LIPS (di cui sei cofondatrice), sia come performer che come MC ed organizzatrice (a partire da Poeti in lizza, con Bravuomo e Catalano). Cosa puoi raccontarci di quei primi anni?
Che sono stati anni di grande libertà creativa ed esplorazione. Sapevo molte meno cose di quelle che so ora, avevo sicuramente molta meno esperienza, ma sono stati anni in cui tante persone – quelle con cui ho poi collaborato negli anni e che hanno contribuito all’espansione della scena dello slam e dato vita a tante proposte performative – si muovevano spinte da una necessità espressiva, da un’idea poco canonica della poesia, con poetiche spesso diverse, oppure simili, ma che hanno trovato nei primi esperimenti di slam un terreno fertile. Lo slam è stato un polo attrattivo, poi da lì si sono create connessioni che hanno dato vita alla scena slam nelle sue varie espressioni e proposte, ma anche ad altro. A volte penso che l’occasione di incontro è stato il poetry slam, ma poteva essere anche altro: lo slam aveva una modalità ludica, performativa e anche un po’ dissacratoria che ha fatto sì che modi e mondi differenti trovassero in quel dispositivo un luogo di incontro, confronto e modi di fare rete.
L’anno scorso è uscita Di pancia (e di altri organi vitali), la tua ultima raccolta di poesie a distanza di diversi anni dalla precedente uscita, che è la versione deluxe del tuo classico Nostra signora dei calzini. Com’è stato il ritorno alla forma-libro, e cosa c’è stato in mezzo?
In realtà non ho mai abbandonato la forma libro. Fra questi titoli c’è stata la pubblicazione di un albo illustrato (Io, Alice e il buio buio, Emme edizioni), la scrittura di altri testi che stanno trovando (Rage world per Neldubbiostampo e un’altro libro che uscirà a ottobre) o non trovando altre vie editoriali, ma anche un monologo (La forma del mistero era una tettoia – una narrazione che ho scritto come un canovaccio e ho testato come narratrice), una pandemia… e un figlio. Sicuramente poi c’è stata una maggiore esplorazione della scrittura pensata per bambini e ragazzi, che è sempre stata una mia passione ma che si è accentuata negli ultimi anni, da quando tengo con frequenza laboratori anche per bambini e ragazzi che generano un rapporto circolare fra lettura, riflessione sui meccanismi di scrittura, linguaggi, immaginari e quindi, poi, scrittura. D’altra parte, facendo in questi anni l’esperienza di vivere un figlio nei suoi primi anni di vita, sono a contatto con il farsi del linguaggio, che è un’esperienza incredibile che nutre la mia lingua e la scrittura.
Un esperimento che stai portando avanti da qualche anno a questa parte è quello di PoetiCo, un progetto di coro poetico che hai ideato e che dirigi. Com’è nata quest’operazione, e quali sono le potenzialità per ensemble vocale che per ora hai esplorato, applicandole alla poesia?
Ho incontrato il coro poetico anni fa, in Spagna, quando durante una residenza ho avuto modo di lavorare con artisti di altri Stati che lavoravano in vari modi con la parola poetica “detta”. Fra questi c’era Estrella Ortiz, attrice, scrittrice e narratrice spagnola. È a lei che devo l’idea del coro poetico, che mi è piaciuta da subito e ho fatto mia. La pratica è semplice: si tratta di un coro, ma parlante. L’idea di base è quella di dire un testo in gruppo, inserendo elementi di gestualità e ritmici che portino a far emergere dal testo la sua dimensione corporea (e collettiva). L’ho sperimentato con un gruppo fisso di adulti, poi con percorsi brevi con bambini e ragazzi e poi, ultimamente, in forma di flash mob, con gruppi di persone che lavorano per breve tempo, qualche ora, su testi che poi vengono portati in pubblico in quella situazione. Il coro poetico è uno strumento incredibile, aperto alla co-creazione, di facile accesso, che permette di mescolare più lingue, corporeità, abilità. Ha delle forti potenzialità didattiche, a scuola è uno dei modi in cui cerco di costruire ponti per e con la poesia, perché attraverso il coro posso portare testi poetici, farli conoscere, scegliere e poi farli giocare. Ma il coro è anche uno straordinario creatore di connessioni, perché i corpi respirano, parlano e dicono all’unisono, dunque oltre a essere uno strumento “artistico” è anche un modo per lavorare con i gruppi.
Come MC del longevissimo Atti Impuri Poetry Slam hai il polso del pubblico live tanto quanto quello della scena nazionale slam, coi laboratori di poesia (da quelli per i più piccoli a quelli alla Scuola Holden) sei in dialogo con chi alla scrittura poetica vuole avvicinarsi, come giurata nel Premio NEO. Edizioni hai la possibilità di leggere nuove penne, insomma, lo sguardo che hai è ampio: come la vedi, al momento, la forma del desiderio poetico di questi tempi? E tu, come lo vivi?
Proprio per la mia “immersione” forse ho una sovraesposizione al desiderio poetico e una percezione un tantino falsata, ma mi pare che la forma-poesia sia molto scelta come strumento espressivo: c’è voglia di “fare” poesia (molta più voglia di farla che di fruirne, ma non mi avvierò verso le desolate lande del “non si legge abbastanza”). In questa voglia ci stanno dentro molti mondi e modi, alcuni ingenui, poco interessanti dal punto di vista letterario (ma sempre interessanti dal punto di vista di ciò che le persone affidano alla pratica della scrittura, per quanto poco consapevole o sorretta da talento), altri fervidi e vibranti. A me stupisce sempre molto, in questo mondo di linguaggi tanto più “forti” in termini di consumo, diffusione, fruizione, come si scelga questo rivolo antico della parola sonora. In parte lo si fa per una apparente “facilità d’accesso”, ma in parte riconosco una necessità espressiva forte, che di altri linguaggi si nutre e che restituisce forme interessanti, ricche, per quanto “di nicchia”. Al di là dei singoli esiti, però, quello che trovo più interessante è un brulicare di pratiche, punti di scambio come festival, piccole realtà editoriali, progetti che mi piace mostrare a chi magari si rivolge a corsi di scrittura o vuole genericamente “fare” poesia. I mondi della poesia italiana sono piccoli, nascosti all’occhio dei più, non so quanto davvero incidano, ma sono vivi e vegeti e stanno in questo mondo qui, presente, non nel passato.
Per quanto riguarda il mio, di desiderio poetico, per me la poesia è diventata un fiume carsico, a volte emerge e capisco cosa si muoveva sottopelle, cosa mi ha interessata e toccata davvero di tutto ciò che ho letto, vissuto e intercettato. Con il tempo sono diventata più “diffidente” verso la poesia, ho più paura di ripetermi, banalizzare. Però quando trovo una radice che mi pare buona e la seguo, scrivere poesia è sempre come come un riconoscimento, il precipitato di un rapporto con la lingua e con il mondo che io non so perché “emerga” per me in questo modo, ma mi nutre, mi gratifica e mi mette in difficoltà abbastanza da far sì che io torni sempre lì.
Parlandi di interscambi, tra le altre cose sei anche ideatrice di Metronimie, festival torinese dedicato alla parola performata che sta per giungere alla sua quinta edizione. Com’è nata questa iniziativa, e quali sono i territori poetici che vi proponete di esplorare?
Metronimìe nasce da un incontro fra Atti Impuri Poetry Slam, all’epoca formato da me e Arsenio Bravuomo, e l’Associazione Amalgama. Ci siamo incontrati grazie al coinvolgimento della nostra realtà in un progetto che stava portando avanti Alessandro Burbank con l’associazione e poi “amalgamati” nel progetto comune di creare un evento che potesse fare da contenitore a una edizione delle finali nazionali della LIPS, che volevamo portare a Torino. Fatte le finali abbiamo continuato a nutrire il contenitore, l’idea comune di creare occasioni per il pubblico di incontrare le tante forme in cui la poesia prende forma. Edizione dopo edizione, siamo arrivati alla quinta, che sarà fra il 19 e 22 Giugno 2025, a Torino, con la tua complicità – diciamo la verità 🙂 – che sei diventato un fiancheggiatore e poi uno dei colpevoli di questa reiterazione festivaliera. Siamo partiti da una generica idea di mostrare la “poesia performativa”, partendo dal poetry slam, ma siamo sempre stati aperti alle tante forme che assume la poesia, avendo chiaro che quella “letteraria”, libresca, è quella più conosciuta e che a noi interessano invece (anche) le ibridazioni, i territori di confine fra la poesia e gli altri linguaggi, fra la poesia e le poesie, nel senso dei tanti modi di intenderla e farla. Hai partecipato anche tu alla discussione che ha portato alla co-creazione del nostro nuovo “sottotitolo” del festival che, non a caso, è una domanda. Metronimìe, festival di poesia performativa diventa quindi Metronimìe Festival. Dove sta la poesia? Con questa domanda, che è una domanda di ricerca, una provocazione, un’apertura e un modo di raccogliere risposte. Perché non mi pare che ci proponiamo di esplorare alcuni territori poetici in particolare, ma che ci interessi l’esplorazione dei modi in cui il poetico esiste attraverso e nelle pratiche contemporanee. Quali sono le proposte attraverso le quali la poesia si fa? Il fare nutre la domanda e la domanda si nutre del fare. Personalmente ho sempre “capito” (e non capito – perché capire non esaurisce la pienezza delle nostre esperienze) le cose facendo e anche la poesia mi ha sempre interessata in questi termini. Credo che, insieme, come Metronimici, quello che ci interessa sia dare spazio a ciò che accade, alla poesia che si fa, nel suo farsi, con un occhio ai micromondi, ai confini, alle contaminazioni possibili.